La storia di Michael e Meshack viene riportata qualche giorno fa dal Mattino e dal Messaggero ed è la cronaca di una tragedia nella tragedia che rivela quanto certe meschinità dell’animo umano rifiutino compassione e misericordia anche di fronte a un conflitto armato. Questi due rifugiati nigeriani, accolti in Ucraina, iscritti al secondo anno uno di economia e l’altro di medicina, sono stati costretti a fuggire da un secondo conflitto, quello russo-ucraino e a trovare ospitalità in Italia.
È suor Anna Alonzo, coordinatrice della “Casa della Regina di Pace” di Casteldaccia, Palermo, a raccontare l’impensabile. Come riporta Il Mattino: «Quando sono arrivati, dopo cinque giorni di viaggio, utilizzando autobus, spesso camminando a piedi, erano esausti. Sono crollati sulla sedia e hanno dormito per ore». I ragazzi avrebbero dovuto essere affidati a una donna che aveva dato la propria disponibilità, salvo poi ritirarla repentinamente dopo aver appurato che si trattava di due africani.
Bianchi sì, neri no
Le anime belle si staranno contorcendo, lacrimevoli e commosse di fronte a cotanta brutalità. Ed effettivamente è così. Bianchi si, neri no. Come se ci possa essere un distinguo tra europei bianchi e calimeri africani. Come se esistano rifugiati di serie A e rifugiati di serie B, C, D fino a scorrere tutto l’alfabeto.
Questo degrado dell’animo – sarebbe interessante appurare se la signora sia una fervente cattolica – mi rattrista, ma non mi sorprende. Il brutto deve ancora venire. Perché sulle tragedia si specula e ci si accanisce nella convinzione che per stare meglio, per sentirsi a proprio agio nel mondo, ci debba sempre essere qualcuno più brutto, sporco e cattivo, o meno meritevole della nostra pietosa e pietistica attenzione.
Qualcuno su cui riversare il nostro revanscismo antropologico, convinti di essere depositari di quella supremazia etnica che ci legittima a guardare (e trattare) dall’alto in basso gli intoccabili. Qualcosa contro cui Papa Francesco ci ha più volte ammonito: quella cultura dello scarto umano e merceologico in cui esseri umani e merci vengono confusi, sovrapposti e rifratti.
Proprio ieri ha iniziato a circolare in rete la pericolosa notizia secondo la quale i profughi ucraini ospitati a Rimini all’interno di strutture alberghiere non sarebbero disposti a lasciare le attuali sistemazioni per convergere in strutture appositamente predisposte, in quanto lì le condizioni igieniche scarseggerebbero.
La notizia, lanciata da Open sui propri canali social, ha raccolto immediatamente migliaia di commenti che scandagliano la bassezza dell’homo tecnologicus in un campionario di frasi fatte, retorica populista, disprezzo e cattiveria cui siamo stati abituati dagli oleati meccanismi della Bestia di Luca Morisi.

Ma è qualcosa che fa il paio anche con la perversione della narrazione (e delle reazioni) alla pandemia. Si ripeteva che ne saremmo usciti migliori, che tutto sarebbe andato bene e che poi abbiamo visto quali conflitti ha creato ed esacerbato, facendoci risvegliare più egoisti, cattivi, rancorosi, e chiusi all’altro da noi.
La guerra in Ucraina ha anche risvegliato i buoni consigli dei tanti Gesù-nel-tempio che fino ieri sputavano fiele sul comparto dell’accoglienza all’urlo di “prima gli italiani” e oggi si ritrovano in prima linea per aprire scuole, aziende e residenze a questi nuovi profughi di serie A, mentre ieri si stracciavano le vesti a favore dei porti chiusi, di blocchi navali vari ed eventuali, di calci charter in grado di ricondurre gli invasori dritti dritti entro i confini dei loro Stati di serie B.
Anche ove si trattava di dittature, anche ove si fuggiva da una guerra evidentemente troppo lontana, sicuramente meno interessante di quella alle porte di casa nostra. Serie A, serie B, serie C. E qui non c’entra nulla il fatto, ormai di dominio pubblico, che sull’accoglienza si è lucrato in maniera opaca grazie all’emergenza. Anche quella di oggi è un’emergenza e anche su di essa si faranno guadagni indebiti, ove scarseggino procedure trasparenti e controlli mirati. Ma è un’emergenza “migliore”, prima inter pares nel panorama della disperazione. Il voltafaccia dei vari Salvini ne è prova emblematica.
Durante il mio tempo impiegato nei centri di accoglienza per africani, pakistani, afghani, tutti quelli brutti-sporchi-e-cattivi insomma, ho ben imparato cosa significhi essere i cocchi di qualcuno o provenire da luoghi percepiti come migliori rispetto agli altri. Ho compreso quanto l’avvenenza e la disponibilità di certi immigrati rappresentasse il viatico idoneo per spalancare le porte del Sol dell’Avvenir e garantire un trattamento diverso rispetto alla massa. Lo trovavo spietato, ingiusto, quasi una bestemmia. Ma tant’era. C’era la prima, la seconda, la terza categoria e chi fa da sé fa per tre.
«Preferisco i ghaniani»
Tra colleghi vocati al sociale si stilava l’elenco delle preferenze: «Coi nigeriani non ci voglio lavorare, preferisco i ghaniani», ad esempio. Una classifica della vergogna che poco onore faceva a chi, spesso, aveva scelto quel lavoro come una sorta di missione.

Non trovo molto diversi questi fenomeni: sono tutti figli di un atteggiamento di disprezzo e di pregiudizio, seme di un’intolleranza su cui Bertrand Russell, alla domanda: «Se dovesse lasciare un messaggio ai posteri, cosa direbbe?», aveva risposto: «La cosa morale che vorrei dire loro è molto semplice: dovrei dire che l’amore è saggio mentre l’odio è sciocco. In questo mondo che sta diventando sempre più interconnesso dobbiamo imparare a tollerarci l’un l’altro e a sopportare il fatto che alcune persone e cose che non ci piacciono possano vivere insieme. Dobbiamo vivere insieme e non morire insieme».