Immigrazione è una cosa seria

di Silvio Nocera

Ricordo esattamente il primo giorno in cui ho cominciato a lavorare nei Cas (Centri di accoglienza straordinaria): mi era stata assegnata una struttura che ospitava 44 persone, tutti afghani e pakistani, appartenenti a etnie e culture diverse e contrapposte. La cosa che mi colpì maggiormente fu che, nonostante i fiumi di studi antropologici, etnologici, psicologici a disposizione, nessuno all’interno dell’ente per cui lavoravo avesse pensato che, nel quadro di un sistema di accoglienza efficace ed efficiente, fosse assolutamente necessario scongiurare l’insorgere dei conflitti e la replica di dinamiche, pressoché tribali, che favorivano la creazione di ghetti e di schemi comportamentali in grado di duplicare dinamiche culturali che ostacolavano l’integrazione. 

La domanda successiva fu: possibile che vengano assunti operatori che non parlano le lingue straniere e che non abbiano una solida base di studi appositamente dedicata al dialogo interculturale? Evidentemente sì. Ed era possibile perché, nel delirio dell’emergenza sbarchi, il punto non era lavorare di fino, ma gestire i grandi numeri. Cosa assolutamente evidente dalle direttive che ci giungevano dai coordinatori del progetto. Anche loro, pur con la passione di chi ha scelto di lavorare nel sociale, erano piuttosto spicci. Come a confermare che, quando si gestisce l’emergenza, l’opera di cesello diventa difficoltosa.

Eppure, si sa, il diavolo si nasconde nei dettagli o, per usare la categoria speculare e opposta, nei non-dettagli. Così, dentro il tritacarne della prima accoglienza – per intenderci, i programmi di supporto ai richiedenti asilo, non l’ex sistema SPRAR, oggi SAI, che ospita chi il titolo di soggiorno lo ha già – le persone diventavano numeri e il loro valore veniva misurato con la quota parte di fondi pubblici allocati per singolo ospite straniero

Si badava al vitto, all’alloggio, alle cure sanitarie, al controllo della pulizia degli spazi, al decoro. Erano previste classi di insegnamento dell’italiano per l’acquisizione di competenze linguistiche che rendessero queste persone autonome nel comunicare, ma gli utenti dei Cas non erano obbligati a seguirli. Nessuno aveva messo a punto un sistema premiale che valorizzasse i risultati e disincetivasse la dispersione scolastica. Peggio è andata quando, approvati i decreti Salvini, è stata esclusa per i richiedenti asilo la possibilità di chiedere la residenza. Non si tratta di un dettaglio: la residenza permette l’accesso ai servizi dei centri per l’impiego o la possibilità di usufruire di borse lavoro, giusto per citare un paio questioni. Banalmente quei decreti venduti come la panacea della sicurezza contro la minaccia di stranieri brutti, sporchi e cattivi, hanno aumentato la soglia di marginalizzazione, trasformando i Cas in parcheggi di stato in cui venivano posteggiate persone in attesa degli esiti delle Commissioni Territoriali. Più di quanto già accadesse.  

Come in ogni situazione di emergenza, la trasparenza  nell’utilizzo dei fondi è spesso trasfigurata in una certa opacità dovuta ad un sistema di rendicontazione che faceva acqua da tutte le parti. Considerando che per i Cas l’obbligo di rendicontazione è stato stabilito dal 2018, c’è da chiedersi chi abbia vigilato sul corretto utilizzo dei fondi pubblici. Le prefetture hanno fatto il loro lavoro? Gli enti gestori, titolari degli appalti vinti, hanno speso bene il denaro? Evidentemente no, date le inchieste che negli anni si sono susseguite e che hanno accertato illeciti commessi in molte aree del Paese.

Si tratta di un danno fatto sia alle casse dello stato, sia all’Italia come Sistema-Paese: spendere soldi senza avviare e controllare politiche di inserimento serie, nel lungo periodo significa ampliare le marginalità, alimentando la conflittualità sociale su cui ha soffiato una certa becera propaganda, ostacolando percorsi di interazione virtuosi per l’Italia che sarà tra 10 o 20 anni. Nel frattempo la prima a beneficiare di questo stato di cose è stata l’imprenditoria italiana: prima che i ragazzi che gestivo uscissero dai programmi, ci tenevo a parlare con ognuno di loro per capire quale fosse il loro progetto migratorio nel lungo periodo e come avrebbero proseguito. Ho così avuto modo di notare che la stragrande maggioranza dei pakistani e degli afghani con cui lavoravo sarebbero partiti con direzione Nord-Est: il Triveneto, terra operosa e industriosa. Molti imprenditori davano lavoro a queste persone alla metà del costo con cui avrebbero dovuto pagare un operaio italiano sindacalizzato. Come dire che il denaro veniva prima, molto prima degli italiani.   

Qualche giorno fa il presidente di una cooperativa che gestisce una best practice assoluta nel sistema di accoglienza italiano mi ha detto: «Solo la nostra cooperativa spende oltre 25.000 euro l’anno per prestazioni sanitarie per rifugiati non coperte dalla mutua. Immagina la quantità di denaro pubblico che l’Italia – tramite per lo più fondi europei – sborsa per accoglierli, curarli e rimetterli al mondo. Poi lasciamo che partano o che vadano ad ingrossare, una volta usciti dai programmi, le file dei disperati o dei cosiddetti invisibili. Una logica antieconomica, un’azione che fa in modo che i fondi investiti non vengano capitalizzati». Ed ha ragione. Perché l’immigrazione dipende da come la si guarda, da come la si interpreta e dalla visione politica che ne è alla base. 

Lasciare che giovani ormai curati, in buona salute, comodi nel loro nuovo assetto, vadano in Germania o nel Nord Europa (cosiddetti movimenti secondari) una volta che si è investito così tanto è sciocco, oltre che miope. E l’allarme lanciato dall’Istat sul tema della natalità, della sostenibilità della spesa sociale, unito all’annoso problema dello spopolamento delle aree interne, dovrebbe suggerire qualche riflessione di buone senso. Che strategia ha l’Italia per fronteggiare questa sfida? E qual è l’impegno che l’Unione europea, azzoppata dalla mancata riforma di Dublino II e titolare di una competenza concorrente con i partner nazionali in tema di immigratorie, intende mettere in campo concretamente, nel breve, medio e lungo periodo, al di là della difesa dei confini esterni?

Parliamoci chiaro: l’immigrazione non si arresterà. Qualora dovesse terminare il flusso dovuto alle varie crisi umanitarie aperte ai confini di Europa o quello di persone che arrivano alla ricerca di un lavoro (che viene gestito con il sistema delle quote di ingresso annuali), sarà la volta dei cosiddetti migranti climatici: basta guardare le proiezioni relative al prossimo futuro.

L’immigrazione va trattata con lungimiranza e pragmatismo.

Non è un tema di destra o di sinistra, ma qualcosa che coinvolge noi, coinvolgerà i nostri figli e i nostri nipoti. Un tema su cui bisogna operare con trasparenza, legalità, visione, coraggio. Caratteristiche che non appartengono a logiche elettorali. Forse è giunta l’ora che ce ne occupiamo seriamente al di là delle partigianerie che non fanno bene a nulla e a nessuno. 


  1. A tal proposito i dati diffusi dall’agenzia stampa SIR sono inequivocabili. Si veda la pagina  https://www.agensir.it/quotidiano/2021/10/15/migranti-viminale-da-inizio-anno-sbarcate-49-235-persone-sulle-nostre-coste-oltre-2-900-ad-ottobre-piu-di-80mila-stranieri-accolti-in-tutta-italia/ 

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