Qualche giorno fa, poco prima dell’avvio dei mercati, la famiglia Benetton e il fondo Usa KKR hanno annunciato l’Opa totalitaria (offerta pubblica di acquisto, ndr) sulla holding Atlantia. Per i pochi che non lo sapessero si tratta della holding che gestisce concessioni autostradali e aeroportuali, quella stessa società cui è imputabile il crollo del Ponte Morandi.
«Lo facciamo per tutelare l’italianità dell’azienda», è stato il messaggio lanciato ai media.
Per gli altri oscuri meandri del conflitto armato, prima Putin e poi Kirill, patriarca di Mosca che ambisce a un nuovo ruolo all’interno della Chiesa Ortodossa, entrambi ex agenti del KGB, hanno utilizzato la guerra in Ucraina il primo come una clava forgiata sull’aberrazione del concetto di identità (e sulla sua negazione), il secondo come un’operazione necessaria a sradicare i mali (identitari) da basso Impero di un Occidente in decadenza.
Scrittori e riscritture
Il conflitto ha anche spalancato le porte alla furia del dileguare invocata contro il popolo russo in quanto russo: alcuni atleti sono stati estromessi dalle più importanti competizioni sportive internazionali, alcuni importanti eventi culturali sono finiti nel tritacarne della propaganda nazionale e internazionale: è il caso del ciclo di seminari dedicati a Dostoevskij che lo scrittore Paolo Nori avrebbe dovuto tenere alla Bicocca di Milano e che sarebbero stati rimandati per – come si legge nella comunicazione che l’Università avrebbe inviato la sera precedente all’inaugurazione -, «evitare ogni forma dì polemica soprattutto interna in quanto momento dì forte tensione».
Musica stonata
Ma è anche il caso di Valery Gergiev, direttore d’orchestra della Scala di Milano, oggetto di ostracismo e pubblico ludibrio per non aver preso posizione netta contro il Presidente russo. Alla Scala e al sindaco Sala, si sono accodate una lunga lista di istituzioni che hanno minacciato ritorsioni: il podio di Monaco di Baviera, la Rotterdam Philarmonic Orchestra, i Wiener Philharmoniker. Ha fatto eco anche il sindaco di Monaco che gli ha chiesto di prendersi responsabilità pubbliche.
Dall’altra parte, durante un concerto per la pace a Mosca, l’esibizione di Aleksej Ljubimov, famoso pianista russo che suonava un brano del compositore ucraino Valentin Silvestrov, è stata interrotta da due agenti russi che, millantando la presenza di una bomba, hanno chiesto di alzarsi e andar via. Il musicista è invece rimasto al suo posto, continuando a suonare. In effetti la bomba non c’era e Ljubimov si è reso protagonista di un momento di resistenza con la forza di un messaggio di pace che solo l’arte e la cultura hanno il potere di lanciare in taluni momenti.
In questo week-end di passione si odono ancora gli strascichi delle polemiche legate alle celebrazioni della Via Crucis per cui il Papa ha fortemente voluto che due donne, due amiche, Albina e Irina, una russa, l’altra ucraina, alla Tredicesima stazione, sorreggessero insieme la croce e, con essa, il peso della pace. Grandi obiezioni dell’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, liquidate dal Vaticano con un affermazione inoppugnabile: il Santo Padre è un pastore, non un politico. Oggi sembra che Kiev abbia boicottato la trasmissione dell’evento.
Identità: forma più sostanza
In un suo bellissimo libro, Francesco Remotti indaga e scandaglia quella che lui stesso chiama ossessione identitaria e che pone al centro del dibattito il concetto stesso di identità come derivazione diretta del pensiero filosofico aristotelico fondato sulla differenza tra forma e sostanza. Dove se A =A allora A ≠ B. Si tratta di un attacco diretto a un impianto cognitivo che vede nella contrapposizione il senso stesso della propria o altrui esistenza.

A questa aberrazione di identità (dicasi identitarismo) ben si accoppiano concetti come purezza (la pienezza di A in quanto A e solo A).
Dice Remotti, commentando un curioso aneddoto di cronaca locale: «Identità vuol dire proprio questo, vuol dire che c’è questa esigenza della purezza, di mantenere la propria purezza e iniziare a fare pulizia, a priori, a prescindere da qualunque evento. È questo a priori su cui dovremmo riflettere».
L’autore afferma inoltre che la globalizzazione e la sempre più stretta interconnessione – vedremo cosa resterà di questa selvaggia globalizzazione che, prima con la pandemia e poi con il conflitto, ha mostrato tutta la debolezza della sua catena degli approvvigionamenti e della produzione – avrebbero rafforzato quest’estremizzazione che andrebbe di pare passo con un sempre più evidente impoverimento culturale, in un processo in cui l’uno legittima e da linfa all’altro.
E quello che vediamo sotto i nostri occhi è quello che, con parole e approcci diversi racconta Fabio Rampini, almeno in parte, ne Il suicidio dell’Occidente, quando descrive il processo di imbarbarimento e impoverimento culturale in atto negli Stati Uniti dove impera la logica del «o con noi o contro di noi» legato a una serie di temi e di aspetti inerenti lo sviluppo dello spazio culturale e sociale pubblico.
Ma è anche quello che vediamo quando ascoltiamo Kirill benedire una guerra tra popoli fratelli in cui uno afferma l’inesistenza, quasi ontologica per Putin, dell’altro (Ucraina) come entità territoriale autonoma dalla Russia. Ed è la stessa arma concettuale brandita per giustificare, stoppare o contrastare qualsiasi operazione che non sia fondata sulla logica binaria del bianco vs nero.
Identità tricolore
Se ci pensiamo bene, anche il pretesto con cui i Benetton, orribilmente colpevoli per le speculazioni sulla manutenzione della rete autostradale, lanciano la propria Opa totalitaria su Atlantia all’urlo di «dobbiamo preservare l’italianità della holding».

Tradotto, e parafrasando un vecchio slogan, gli italiani lo fanno meglio. Il “meglio” che quegli italiani fanno è stato sotto gli occhi di tutti e permane nelle vite interrotte degli automobilisti morti nel disastro del Ponte Morandi.
E questa identità, e la purezza ivi collegata, riportano subito alle aberrazioni del secolo scorso, non solo riguardo l’Olocausto, ma, giusto per fare un esempio tra i tanti, anche al genocidio armeno, di cui tutt’oggi è scomodo parlare.
A contrario, il bando e l’esclusione di sportivi e intellettuali, ovvero di opere e autori importantissimi che hanno segnato la storia della cultura europea e mondiale, è figlio della logica speculare: sei diverso da noi, pensi diversamente da noi, non sei degno di essere ammesso al nostro consesso a causa delle tue opinioni, della tua provenienza, del tuo portato. O, come nel caso di Kirill, sei esponente di un mondo di perdizione cui la Chiesa Ortodossa di Mosca oppone il suo sacro e giustificato (da Dio) furore.
La stampa e i media sono chiaramente i primi complici, quando prestano il fianco a operazioni di propaganda che troppo spesso pare sostituire il diritto ad informare e ad informarsi con obiettività.
Remotti compie allora un passo ulteriore per uscire da questa impasse: sostituire la categorie dell’identità con quella di riconoscimento. Si tratta di una proposta che affonda le proprie radici in quell’impianto hegeliano della Fenomenologia dello Spirito secondo cui la vita sociale si basa esattamente sul reciproco riconoscimento.
Il riconoscimento, che porta con sé concetti come esistenza, bisogni, caratteristiche, diritti, si fonda sulla capacità (e sulla necessità) di negoziare il conflitto tra opposti, ossia soggetti culturalmente diversi.
L’escalation delle conflittualità, quali motivi alla base dello scoppio di qualsiasi scontro, a livello sociale, economico, etnico, culturale, militare, corre sempre e solo verso un’unica direzione: quella dell’annientamento.
Proprio a causa della crescente complessità sociale e di un’interconnessione che potrebbe essere bloccata solo da un completo stravolgimento degli ordini e degli equilibri che hanno retto il mondo dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, rinunciare a riconoscere l’altro da noi, arroccandoci su posizioni di rendita, di comodo, di paura, di pigro laissez faire, non risolverà i problemi che dobbiamo gestire e non sgombrerà l’orizzonte dalle grigie nubi che annunciano una terribile tempesta.