di Elisa Mauro
Ogni musica ha un talento. Alle volte corrobora certi desideri, in altri casi serve a filtrare l’ascolto da ciò che non vorremmo sentire, in certi altri la musica ha il potere di sopportare carichi più grandi di quelli che ci portiamo addosso. È esistita a questo mondo un’ingegneria tecnica e precisa diretta da demoni spietati che ha spento per anni il lume più umano e più sensato della specie di cui facciamo parte. Sì è chiamata nazismo per concentrarla in una determinata area geografica e in un tempo ben preciso, ma ciò che è stato, che abbiamo studiato, anche attraverso alcune delle testimonianze umane ancora in vita, deve avere un’origine stravagante, soprannaturale, di certo inspiegabile.

Il PIANO
Tutto il dolore causato dall’Olocausto, consumato in Germania e nei campi di sterminio e di concentramento dislocati in tutta Europa, parte da un’idea ben precisa, dalla visione di un mondo diverso, che voleva essere reso “migliore” – stando a questa -, fatto di un’unica sembianza, di omologazione, di tanti uni pari e patti che si rassomigliano e che credono di essere migliori dei due, tre, quattro, sei milioni e di tutti gli altri.

Quello che si edificò a quei tempi fu un Esercito del Diavolo retto da una sola idea. In queste macchine di annientamento, che riprodussero in serie, ci entravano Ebrei, zingari, omosessuali e oppositori. Persone che rappresentavano allo stesso modo una minaccia alla perfezione autoproclamata di una specifica fetta di popolo umano. E il difficile non era morire lì dentro ma sopravvivere.

Per quanto tempo sia trascorso ormai, quel male non può essere lasciato andare. Si è fatto chiodo che spinge contro la memoria e regge la nostra stessa coscienza di uomini che è ormai diventata un quadro profondamente triste su cui si figurano le immagini di milioni di persone deportate non tanto per essere uccise, quanto invece per essere annientate, distrutte, cancellate. Per estinguere la loro stessa memoria, la traccia che avevano quando erano in vita.
LA COMPLICITÀ
Per riuscirci, in Europa, chi guardava fingeva di non vedere. Chi ascoltava non sentiva le urla strazianti di bambini, donne e uomini lasciati ad agonizzare per minuti lunghissimi e tremendi nelle camere a gas. Eppure in un luogo così, all’Inferno, era ammessa la musica. La musica, anzi, era lo strumento di cui quei demoni assassini si servivano per nascondere molto di quel dolore, troppa di quell’atrocità, per silenziare la coscienza, se mai ne avessero avuta una.
MUSICA COME SPAURACCHIO
Tra i deportati chi sapeva suonare aveva una speranza ma anche un compito atroce: con la musica si salutavano i nuovi prigionieri che scendevano dai carri bestiame dopo settimane di viaggio in condizioni inumane, dopo giorni di buio e di indescrivibili sofferenze fisiche, dopo aver lasciato per sempre sorrisi, spensieratezza e tanto di quello che consideriamo vita; con la musica si rallegravano anche i pasti degli aguzzini, o i loro balli, la frenesia sciatta e volgare della malvagità; con quella si andava a lavorare, con quella si andava anche a morire. La musica era lo spauracchio da utilizzare all’occorrenza, per non parlare, perché in alcuni casi, come in questo specifico, nessuna parola avrebbe racchiuso il senso di ciò che stava accadendo.
LE TRUPPE ROSSE AD AUSCHWITZ
Il 27 gennaio 1945 era un sabato. Le truppe sovietiche raggiunsero la cittadina di Oswieçim che in tedesco aveva un altro nome, si chiamava Auschwitz. Cracovia era a sessanta chilometri da lì. Pochi giorni prima le stesse truppe avevano tatuato negli occhi l’orrore di quei campi a Chelmno e Belzec, a Treblinka e Sobibòr, fabbriche di morte dove i resti umani erano ovunque, li calpestavi, li sentivi scricchiolare sotto gli anfibi. Erano ossa, cenere, poltiglia.
La neve fuori era alta ma non fermò l’avanzata rossa che buttò giù anche i cancelli di Auschwitz per disperdere e uccidere i nemici e salvare i superstiti. I soldati scesero dai carri, contarono le persone rimaste sui bordi. Alcuni s’inginocchiarono, pregavano. Credevano di morire ancora, per la seconda, terza volta. Poi capirono, gli occhi si inumidirono ancora, per la libertà. Furono 7.650 i fantasmi ancora vivi. Non avevano più sembianze umane, ricordavano vecchi cenci ingialliti dalla sporcizia e coi capelli così corti era difficile distinguerne persino il genere.
IL RICICLO DEI CORPI
Ad Auschwitz furono deportate più di un milione e trecento mila persone: 900.000 furono portate ad agonizzare immediatamente nelle camere a gas col cianuro, 200.000 morirono di fame e di malattie. I soldati trovarono resti umani, anche qui, l’orrore: circa otto tonnellate di capelli umani. Cosa ne facessero con quelle, si capì dopo: coperte, trapunte, tutto ciò che poteva servire per difendere i nazisti dal freddo gelido dell’inverno. Che orrendo paradosso, ma tutto funzionava alla perfezione, persino il riciclo dei corpi.
I lager non erano solo ad Auschwitz-Birkenau, erano dislocati anche a Dachau, Flossemburg, Dora-Mittelbau, Neuengamme, Ravensbruck, Mauthausen, Buchenwald e Terezìn.
I LAGER ITALIANI
Anche l’Italia aveva i suoi. L’Italia del Nord ne aveva concentrati due, tre, li chiamavano campi di transito per deportati, partigiani, antifascisti ed Ebrei. Uno era a Fossoli di Carpi vicino Modena, l’altro a Bolzano, e un altro ancora, di cui si seppe più avanti, a Borgo San Dalmazzo, in provincia di Cuneo. Fu creato, come ad Auschwitz, un campo di sterminio a Risiera di San Sabba di Trieste che ammazzò i suoi prigionieri per due anni fino all’aprile del 1945.
LA MUSICA È UNO SPRAY ANTI-ZANZARA
Nel bel mezzo di questa ingegneria dell’orrore cosa ci faceva la musica, la buona sacrosanta musica? La morte è una zanzara. La musica è uno spray anti-zanzara. Anche se non l’ammazza, di certo la stordisce. Classica, popolare, canzoni d’amore, preghiere cantate, operette, cabaret e musica da camera, sacra, popolare, la musica nei lager nazisti è stata un alleato della salvezza per quelle persone, anche quando non c’era già niente da fare. Si riproduceva ma soprattutto si creava non solo per opporre la mente a quella tremenda realtà, per estraniarsi, ma anche resistere, per non arrendersi.

Fu chiamata la Musica della Shoah e fu composta per tutta quella umanità che subiva il processo contrario all’evoluzione della sua stessa specie. Era espressione di un dolore raffermo e che mai si sarebbe sciolto, erano note che riproducevano letteralmente la paura, l’amarezza, la sconfitta ma anche la speranza per molte delle vittime di quelle persecuzioni politiche messe in atto dal nazismo e dalla sua Germania, con la crudele complicità degli alleati, per dodici lunghi anni.
A TEREZÌN
A Terezìn, una città dall’aspetto militare a una manciata di chilometri da Praga, che ospitava un altro grande campo di concentramento e di lavoro forzato, furono trovati illustrazioni e manifesti di eventi concertistici e musicali. In questi cabaret si esibivano gli schiavi per quelli rimasti ancora in vita. In un contesto così, nell’auditorium dedicato, furono persino rappresentate opere liriche comiche come La sposa venduta di Bedřich Smetana, Le nozze di Carmen di Georges Bizet e Brundibar, un’operetta per bambini musicata da Hans Krása e diretta Rafael Schächter. Quest’opera fu composta a Praga nel 1938 ma per la prima volta vide il pubblico nel 1943 proprio a Terezìn in quel campo. Il musicista Krása fu trasferito ad Auschwitz nell’ottobre 1944 e da lì non fece mai più ritorno. Sempre in questo campo di concentramento si esibiva di nascosto, nella notte, la band The Ghetto Swingers che suonava musica per antonomasia nemica del regime: il jazz.
Tra gli eroi della musica, intenti a nascondere le tracce di quelle testimonianze sonore, ci fu un poeta e musicista di nome Shmaryahu Kaczerginski. Quest’uomo si dedicò alla raccolta e alla conservazione di musica in yiddish, la lingua parlata dalla maggior parte degli ebrei in Europa centrale e orientale. Erano canzoni dei campi di sterminio. Era musica di dolore tremendo e asfissiante. Kaczerginski riuscì a prelevare e conservare segretamente 250 opere e, una volta libero, nel 1948 scrisse nella prefazione del suo libro: «È impossibile parlare dell’occupazione tedesca in un linguaggio civile. Tutti gli scritti, i documenti non possono ritrarne l’orrore. Quelli che non c’erano non possono capire l’incubo che milioni di persone hanno vissuto. Ora, quando guardo indietro, penso spesso: Che cosa ci è successo? Come abbiamo potuto vivere e morire così?
Anche per i sopravvissuti col tempo questo diventerà un insopportabile e irrisolvibile rompicapo. Troppi pochi documenti sono stati svelati per dare anche solo un’idea parziale di quanto accaduto e della terribile vita quotidiana degli Ebrei. Per questo penso che le canzoni, che gli Ebrei dei ghetti e dei campi cantavano coi loro cuori tristi, possano fare la differenza per la memoria e la storia. Canzoni che cantavano al lavoro, quando stavano in fila per una scodella di zuppa, quando combattevano e quando erano portati al macello. Solo ora sappiamo quanto grande fosse la loro creatività in questi tempi terribili».

Il Quatuor pour la fin du temps (o il Quartetto per la fine del tempo) di Olivier Messiaen è una delle composizioni più struggenti ma anche un capolavoro, essendo tra le opere cameristiche più apprezzate al mondo, e fu realizzata dal musicista francese Messiaen durante la sua prigionia nel campo di concentramento Stalag VIII-A di Görlitz, al confine della Polonia. Nata inizialmente come un’opera per tre elementi, violoncello, violino e clarinetto, in un secondo momento, durante una prova nel campo di concentramento, il maestro optò per introdurre il quarto elemento: il pianoforte. La musica così realizzata narrava l’eterno, il suo raggiungimento attraverso l’ultimo atto del mondo, l’Apocalisse, lasciandosi ispirare dalle parole di San Giovanni: «E vidi un angelo, forte, scendere dal cielo, avvolto in una nube; l’arcobaleno era sul suo capo, la sua faccia era come il sole, le sue gambe come colonne di fuoco». Non vi sarà più tempo, in un posto così, perché anche il tempo sarà fatto morire, sembra dirci questa meravigliosa composizione d’arte musicale.
Viktor Ullman, allievo di Arnold Schönberg, fu prigioniero nel campo di concentramento di Terezìn. Non smise di produrre musica neppure quando la fame gli chiudeva gli occhi e tirava pizzichi tremendi sul cuore. Con la tenacia che solo un artista sa avere scrisse L’imperatore di Atlantide un’opera lirica in quattro atti, che però non fu mai rappresentato a causa di quella satirica vicinanza dell’imperatore al demonio Adolf Hitler. Anche Ullman fu portato a Birkenau per essere annientato nelle camere a gas. Ci tenne affinché la sua opera venisse conservata di nascosto da un compagno bibliotecario con il quale si rassicurò moltissimo di tenerla custodita come una figlia, poco prima di essere chiamato alla Morte, uno dei suoi più riusciti personaggi nell’opera.
«Non mi svegliare, non voglio capire il mondo. Non voglio vedere i tormenti del mio popolo» è uno dei più famosi brani Nje Buditshe (Non mi svegliare) di Esther Béjarano, prigioniera del campo di sterminio di Auschwitz. Era stata, giovanissima, introdotta nell’orchestra femminile del campo nato con lo scopo di accompagnare le detenute-schiave al lavoro nelle fabbriche e di dare il “benvenuto” come prevedeva l’inganno diabolico dei nazisti, ai nuovi deportati. Esther fu tra le anime salve. Nje Buditshe è un canto in lingua romanes appartenente a Sinti e Rom.
Il miglior cabaret in Olanda! così battezzò amaramente Julius Rosenbaum, conosciuto con lo pseudonimo Willy Rosen, lo spettacolo che mise in scena ad Auschwitz nei due anni di prigionia fino alla sua uccisione.
Ilse Weber, poetessa e infermiera, dedicò la sua ultima vita alla cura degli infermi a cui trasmise canzoni, fiabe, poesia. Molti di quei sopravvissuti, anche a lei, che morì invece nelle camere a gas, le ricordarono e seppero tramandare.
Di tutte le partiture musicali composte durante la prigionia nei campi di sterminio tedeschi da migliaia di musicisti ebrei solo una piccola parte resta a noi (il 10%) ma è quella che dà il suono alla memoria più di qualsiasi altra parola.
GIORNO DELLA MEMORIA
Dopo quel giorno, il 27 gennaio 1945, il Giorno che conosciamo ormai come della Memoria, la musica diventò essa stessa memoria, perché facente parte di un tessuto connettivo che racconta – e non deve mai stancarsi di farlo – il funzionamento perfetto e spietato di una macchina dal valore ingegneristico che solo il demonio, nelle sue vesti peggiori, tra l’altro, avrebbe potuto realizzare.
L’INTRODUZIONE IN ITALIA
Con l’approvazione della legge 221/2000 anche l’Italia fa di quel giorno la Giornata della Memoria. «La Repubblica riconosce i giorno 27 gennaio data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, Giorno della Memoria, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonchè coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati» (Art. 1 Legge 20 Luglio 2000, n.211 Istituzione del Giorno della Memoria).