di Pinakos
Che la Luna non c’era quella notte
E il cielo era buio sott’a quell’albero
E il nero era elegante e seducente
E i baci erano ciliegie che rotolavano
Una dopo l’altra
Da labbra di Cuore.
Erano rossi e umidi quei baci suoi,
Neri quei guanti in cui si proteggeva le mani e l’Anima
Pure l’acqua sulfurea profumava di rose.
Laggiù sotto le stelle fisse del Carro
Con Giove di lato
E tutti i tesori di leggende dei popoli del Sud.
Si stava comodi a giocare a Tetris
Là, avvinghiati a quella curve di collina
Ed era tutto bello lui che mi guardava e non parlava
Bello lui che mi vedeva bello.
E io sarei stato mare e pure cielo
Sarei stato un sogno oppure Cuba,
Avrei raccontato l’Europa e l’Africa
e i gelidi inverni del Nord,
Io che avevo l’arte di troppe parole
Che mi erano servite
A creare prigioni di mille mondi
Uno contenuto negli altri
Mandala variopinti
Per risicare ancora alla ruota della Vita
Lussureggiante roulette russa
cui mai avrei rinunciato.
Le parole foniche
Le esibivo su quel palcoscenico afono.
E ci ero abituato e mi dava agio
E tenevo al guinzaglio
I cani della Paura di Amore
E tutto quell’orrore di fronte
A infinite falangi dell’esercito dei Sentimenti
Come una puerpera ingrata che rinnega
il Frutto puro della Vita.
E che cosa avrei potuto dire
a quell’Amore notturno e clandestino;
a quell’amore timido e brillante
nel nero profondo di quegli occhi di brace?
Gli avrei sussurrato grazie
In quel dormiveglia
Dove i sogni sono ancora così reali
Nei panni di un principe Bambino
Sospeso tra le stelle
Che roteava la sua scimitarra di sillabe.
E le lettere non erano più sarcofagi,
Ma midollo.
E le sillabe non più fratture,
Ma tendini.
E i sussurri non più gelidi sospiri,
Ma pulsazioni.
E le parole mai più vicoli ciechi
Ma terrazze di mare.
Così la notte si era stupita
E s’era trasformata in una maschera di sorrisi d’oro.
E io mi ero perso nel calore delle sue mani dolci.
E avevo deciso di chiedere tregua.
Avrei aspettato l’Aurora.