Il linguaggio di Tom Wolfe e la rivoluzione degli outsider

di Elisa Mauro

Non c’è parola che non si generi dalla cultura di un essere umano, dalla condivisione che se ne fa. Anche fosse completamente inventata, anche fosse nuova. Il linguaggio ha fatto una strada immensa per arrivare a noi. Controverse sono state le teorie che lo vedevano evoluzione di un passato monosillabico e rudimentale fatto di grugniti, flatulenze orali e improvvisi attacchi d’asma. 

Le cose sono cambiate, la lingua si è fatta esperta, in molti casi si è snellita, come su una passerella, ha reso noti i suoi punti deboli, ne ha costruiti di forza, ha reso le generazioni vittime dei suoi costumi che cambiavano come maschere di un carnevale e ha ridato onorabilità e rispetto a qualcosa che chiamavamo cultura, intesa in precedenza come un essere informe e dotato di propria entropia. 

Il regno della parola (Giunti editori, 2016) è un regno immaginario e immaginato, lasciato dal primo essere umano a noi. Tom Wolfe, il maestro della parola, scomparso nel 2018 per una grave polmonite, ne ha fatto un saggio divertente, irrisorio, propedeutico. Qualcosa da leggere se si è dotati di linguaggio e si ha intenzione di dare importanza a quegli aspetti che, nello spettro dell’insegnamento primario oggi rivolto a un qualsiasi bambino, risultano invece marginali. 

La sostanza di un discorso e di come si evolve lo spiega uno scrittore che come Wolfe ha fatto della parola un filo lungo su cui ognuno di noi può camminarci restando bene in equilibrio tra ironie e sarcastiche euforie. 

Prima di essere uno scrittore Wolfe ha redatto articoli per le più importanti testate americane come giornalista e cronista e ha conosciuto la parola meglio di chiunque altro scandagliando gli anfratti dentro cui si annidavano teorie riconducibili al suo avvento sulla terra. 

In base ai suoi studi e alle sue ricerche ha desunto che non è l’evoluzione umana ad aver condotto l’uomo al punto in cui si trova con le sue conquiste ma, sopra ogni cosa, il linguaggio, un essere vivente dotato di un genoma molto particolare che si costruisce e si perfeziona oltre l’ignoranza.

Basti pensare all’autodidatta Alfred Russel Wallace che spianò la strada, o meglio, la suggerì, o meglio, ne fu derubato, all’idea di linguaggio oltre la stessa evoluzione umana.

Ma è solo con la parola che si può dissacrare il linguaggio, spiega Wolfe. È per questo che perfeziona massimamente la sua idea annientando con sottile eleganza quella di Noam Chomsky, non proprio uno che con la parola non abbia niente a che farci. 

01 Oct 1972, Boston, Massachusetts, USA — American writer, educator, and linguist Noam Chomsky, at home in Boston. Also know for his political activism he was an early and outspoken critic of U.S. involvement in the Vietnam War having written. Image by © JP Laffont/Sygma/Corbis

Secondo il filosofo e saggista americano, fondatore della grammatica generativo-trasformazionale, la parola è sorta quasi come per magia grazie a un «riciclaggio probabilmente leggero» del cervello, contestualmente a un discreto aumento del suo volume. Solo attraverso l’autocoscienza e il pensiero arguto, sempre secondo Chomsky, l’uomo ha sviluppato il linguaggio. Per tradurre, dunque, mente e pensiero (forma primaria di coscienza) come forma di comunicazione secondaria. 

Non serve solo avere un apparato fonetico per parlare, spiega Noam Chomsky da circa 70 anni, occorre prima di tutto sapere cosa dire, avere un bagaglio di pensiero autonomo e precostituito, idee alla base di ogni esposizione. 

Solo quando i processi nervosi del pensiero interiori furono connessi al sistema senso motorio, infatti, l’uomo iniziò a parlare diffondendo tra i popoli e le loro generazioni quello che sarebbe stato lo strumento per comprendersi a vicenda. In alcuni casi, ma non sempre, purtroppo. 

Tom Wolfe, New York City, November 2011

Con la sua tecnica giornalistica ben affilata, Wolfe, padre del New Journalism e della letteratura Non-Fiction, ma anche di termini precorritori come radical chic, ripercorre la storia di uomini outsider che dimostrano come questa teoria, e ogni teoria darwiniana considerata bibbia dall’uomo, possa essere sgretolata dalla parola stessa e dell’uso sapiente che se ne fa. 

«Eureka! Il lampo di intuizione improvvisa illumina la scatolacranica di Wallace. Ecco la soluzione a quello che i naturalisti definivano «il mistero dei misteri»: ecco come avviene l’evoluzione! Ma certo! Ora gli è chiaro! Gli animali affrontano le stesse morie dell’uomo. Tutti, dalle scimmie agli insetti, lottano per sopravvivere e solo i più adatti (il termine è di Wallace) ce la fanno. Ora gli appare chiaramente come un progresso inevitabile. on il passare delle generazioni, delle ere, degli eoni, una razza deve adattarsi al mutare di tali e tante condizioni, difficoltà, minacce, al pinto che per sopravvivere si trasforma in qualcosa di totalmente altro: una nuova razza, una nuova specie!» (Il regno della parola, Tom Wolfe, Giunti editore, 2018).

Chissà che non stia accadendo proprio in questo momento qualcosa di analogo, un cambiamento, una trasformazione che ci vede al punto di partenza, a una nuova linea tratteggiata davanti ai nostri piedi da oltrepassare o da ignorare ingenuamente. Chissà che non sia piuttosto la fine del percorso, l’arrivo, il punto massimo da cui poter solo guardare indietro e ammirare la strada che si è fatti per arrivare fin qui. 


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