È di qualche giorno fa il lancio ANSA che annuncia l’accordo di governo tra i partiti della coalizione di centro-destra usciti vincitori dalle recenti elezioni: Il premier svedese in pectore, Ulf Kristersson, leader del partito dei Moderati, ha comunicato che con i due partiti conservatori alleati, i Cristiano-democratici e i Liberali, è stata formata un’alleanza di governo a tre, che godrà dell’appoggio esterno dei Democratici Svedesi (DS), partito di estrema destra.
Ora, i DS sono guidati da Jimmie Akesson, un leader che li ha condotti ad affermarsi come primo partito della coalizione di destra vincitrice delle scorse elezioni, assieme ai Conservatori di Kristersson: 20,7% di preferenze.
Akesson è l’enfant prodige della politica svedese: capeggia un partito erede di Bevara Sverige Svensk, organizzazione di ispirazione neonazista, sovranista e nazionalista e, nei 17 anni della sua leadership, ne ha dato un volto nuovo, più moderato, seppure le sue tracce identitarie restino legate a elementi valoriali come sicurezza, sovranità, nazione, tutela dell’identità. Bevara Sverige Svensk, per l’appunto: mantenere la Svezia svedese.
I DS sono anche alleati di Fratelli d’Italia al Parlamento Europeo e appartengono a tutta quella galassia conservatrice dei vari Rassemblement National o Alternative für Deutschland che intendono affermare una nuova centralità culturale attraverso un rinnovato peso specifico politico.
Se, da una parte, si tratta di un naturale processo dialettico tra blocchi e corpi della società con sensibilità etiche e sociali differenti, dall’altra, l’affermazione elettorale e/o la formazione di governi di cosiddetta estrazione “sovranista” e “populista” in Europa (i governi di Ungheria, Polonia, Svezia e Italia, le doppie cifre raggiunte dal Rassemnlement National in Francia, Vox terzo partito in Spagna) rispondono a due ragioni: la richiesta di risposte confortanti a i problemi complessi della nostra epoca e la ricerca di scialuppe di salvataggio in un ordine mondiale sconvolto dalle globalizzazioni.
Utilizzo il termine al plurale per sottolineare la presenza contemporanea di diversi flussi: la globalizzazione tecnologica, economica, finanziaria e perfino culturale (sul come e sul quanto ci siano di mezzo fenomeni come la cancel culture dovrebbero essere numerosi saggi).
Non si tratta di un attacco all’Europa come Europa, ma di richieste di tutela e di ordine. A tal proposito sono interessanti i dati pubblicati dall’ultima indagine di Eurobarometro, svolta tra gennaio e febbraio 2022 con interviste a 26.696 persone di 27 paesi dell’Ue: il 62% dei partecipanti si dichiara molto o moderatamente ottimista sul futuro dell’UE, seppure il 39% sostiene di non sapere come funzioni l’Ue.
Per gli europei i temi più preoccupanti sono l’aumento dei prezzi e del costo della vita e l’inflazione (24%) e l’immigrazione (22%) con specifici trend negativi nell’Europa orientale e meridionale. Il 58% dei partecipanti dichiara di sentire un legame con l’Ue. A questi numeri fanno eco quelli del sondaggio speciale Eurobarometro 517 “Il futuro dell’Europa”: Il 90% degli europei concorda sul fatto che la voce dei cittadini dell’UE dovrebbe essere presa maggiormente in considerazione nelle decisioni relative al futuro dell’Europa. I dati che riguardano il nostro Paese si allineano perfettamente alla media nel quadro più generale di un maggiore “gradimento” della Ue dopo la pandemia.
Poi è scoppiata la guerra
Ci siamo trovati tutti più europei, più insicuri (il 61% degli europei non è sicuro che la propria vita continuerà come prima), più poveri: quattro europei su dieci affermano di subire già un impatto sul proprio tenore di vita (40%). I numeri ci dicono che gli europei, spaventati e in crisi economica apprezzano ciò che l’UE fa per loro, temono per il loro futuro e chiedono con forza un maggiore coinvolgimento nel progetto di integrazione, ma mostrano di conoscere poco i meccanismi di funzionamento dell’Unione, ancora troppo opaca.
I dati non trasudano euroscetticismo, ma una richiesta di maggiore tutela e inclusione. Euroscetticismo 0 – Europeismo 1, si direbbe, semplificando.
La storia insegna che le maggiori affermazioni di certe compagini accartocciate su stesse che guardano a determinati pattern valoriali di stampo conservatore e per certi versi reazionario (nel senso, quasi fisico del termine, che reagiscono a uno status quo diventato opprimente, opponendo istanze di riforma sistemiche) vanno di pari passo con congiunture di crisi economica. La povertà scatena conflitti e chiede risposte.
Sono quelle risposte che i nuovi governi e i nuovi centri di potere nazionali sono chiamati a dare. Un tema che riguarda il futuro dell’Europa.
Lo scorso giugno di 15 partiti di 14 Paesi europei (tra gli altri Lega, FdI, Rassemblement National, Pis, Vox, FIdesz, Fpö) hanno firmato la Dichiarazione sul futuro dell’Europa, documento contenente le loro linee programmatiche in tema di politiche europee in cui chiedono di:
A) restituire i pezzi di sovranità sottratti ai partner nazionali dell’UE;
B) rivedere le direttrici dell’attuale processo di integrazione diretto alla costituzione di un Superstato europeo;
C) riabbracciare le radici giudaico-cristiane dell’Europa;
D) supportare la famiglia tradizionale quale unità fondamentale delle nazioni.
Si tratta del nuovo fronte dell’agenda programmatica, prima che politica, di un blocco critico verso l’attuale architettura europea e i valori a suo fondamento che rappresenta il vero punto di svolta nel dibattito sul processo di integrazione europeo: il blocco conservatore non chiede di abolire l’UE o uscire dall’euro (per lo meno non più) ma di guardare al modello dell’Europa delle Nazioni, battendo su alcuni altri temi e punti che risultano comuni a tutte le sue componenti: lotta al terrorismo islamico e all’immigrazione clandestina, difesa dei confini e degli interessi nazionali, nuovo approccio nel commercio internazionale (il Wto non dovrebbe legiferare in maniera puntuale e universale senza rispettare le esigenze e le sensibilità dei singoli Paesi), tutti elementi fuoriusciti dalla convention L’Europa del buonsenso, lanciata nel 2019. Un approccio chiaramente opposto a quello dei lavori che stanno svolgendo Parlamento e Commissione Europea sul futuro dell’UE.
Nel 2018 FDI ha presentato progetti di legge costituzionale come la n. 298 – che chiede di abolire parti degli articoli 97, 117 e 119 intervenendo sul sovraordinamento del diritto comunitario. Nel suo intervento in commissione, Meloni sostiene che «l’Italia si sia in sostanza desovranizzata, nonostante nessuno glielo imponesse, tenuto conto che gli stessi trattati europei riconoscono la sovranità degli Stati nazionali e le loro funzioni essenziali, salvaguardandone le prerogative costituzionali, anche in relazione al rispetto delle autonomie territoriali. Osserva quindi che anche altri Paesi riconoscono clausole di salvaguardia dell’interesse nazionale, richiamando l’esempio della Germania, in relazione alla quale fa notare che, in caso di contrasto tra norma interna e sovranazionale, si tende a far prevalere quella più economicamente vantaggiosa per lo Stato nazionale, attraverso l’innesco di meccanismi di tutela del proprio ordinamento costituzionale».
Polonia e Ungheria ci hanno provato e si è vista come è finita
Il taglio dei fondi è l’arma nucleare della Commissione Europea per scoraggiare qualsiasi tentativo di messa in discussione dell’acquis comunitario e del suo recepimento.
Giorgia Meloni ha ben presente che una cosa è fare opposizione politica attraverso attività parlamentare (il provvedimento ha avuto vita breve ed è finito in un cassetto), un’altra è sobbarcarsi il peso della responsabilità di governo: governare un Paese non è la stessa cosa che rastrellare voti e i voti presi sono voti che chiedono giustizia sociale, supporto economico, provvedimenti contro la crisi, cambiamento. Lei che è anche presiedente dei Conservatori e Riformisti non mette in discussione l’aderenza all’UE, ma preme per un nuovo standing italiano in Europa: il senso del suo ragionamento sta nella ricerca di un nuovo asse con la Francia per ridimensionare il ruolo della Germania (non può combattere contro Parigi e Berlino al tempo stesso), forte delle relazioni che Roma ha con Washington, a cui non dispiace una Germania più debole.
In un quadro internazionale in cui l’affermazione dei partiti conservatori e reazionari, come da decenni non si vedeva in Europa, assume un peso specifico nuovo, l’Italia di FdI, paese fondatore dell’UE, può rappresentare la punta della lancia di un riformismo europeo che ripudia l’attuale architettura (di cui condivide solo l’attuale modello intergovernativo) e intende soppiantarla con uno schema organizzativo e un impianto valoriale completamente diversi.
Si tratta di un’operazione che, come già scritto qui, si fonda sui mutati rapporti di forza all’interno dei parlamenti nazionali e, di riflesso, sugli equilibri di potere al Parlamento Europeo dove l’egemonia di Popolari e Socialisti è ormai messa in crisi. Le battaglie che la Meloni, come probabile presidente del Consiglio e dell’ECR, dovrà condurre hanno questo doppio fronte, ma appartengono a una solo disegno: trasformare la galassia dei partiti conservatori in una nuova destra europea di governo. A Roma come a Bruxelles, senza sfasciare o indebolire l’Unione, terza punta del tridente USA, Nato, UE nel riposizionamento geopolitico generale.
Per raggiungere questo obiettivo è necessario mediare, pacificare e trasformare i conflitti e il dialogo
Ma se questa nuova legislatura parte con il deposito di disegni di legge come la modifica dell’attribuzione della capacità giuridica dei nascituri dal momento del concepimento, l’intensità del conflitto di valori è solo destinata ad alzarsi in un momento in cui sarebbe più forte l’esigenza di trovare forme di pacificazione sociale che evitino nuove forme di conflittualità.