I protagonisti di Sudarìa: intervista a Salvatore Basile

di Silvio Nocera

«Quella narrata in Cinquecento catenelle d’oro, edito da Garzanti, è innanzitutto una storia di amore. Anzi di 3 amori». Comincia così la mia lunga chiacchierata al telefono con Salvatore Basile, napoletano di nascita e romano di adozione, scrittore, regista, sceneggiatore Rai di lunga esperienza, presente alla prima edizione di Sudarìa – Venti dal Sud il prossimo 16 settembre alle ore 18.00 presso il Palazzetto Baviera di Senigallia. 

Siamo molto lieti di ospitare una penna e una firma come le tue. Sei uno dei nostri autori preferiti. Pronto a fare questa sudata assieme?

Prontissimo e contentissimo di esserci. Non avrei saputo trovare nome migliore per un evento che promuove il Sud come spazio fisico, culturale, simbolico. La parola Sudarìa racchiude un concept e un immaginario potenti. Che poi sono anche quelli con cui ho voluto disegnare Calandra, il borgo dove ambiento il mio romanzo.

Nel tuo libro racconti uno spazio umano, letterario, mentale. Uno spazio che è al tempo stesso afflitto dal controllo sociale e da un processo di liberazione, quello della protagonista Maria.

È proprio così. Il romanzo si svolge nel borgo immaginario di Calandra, paesino del Sud Italia dove, alla fine del XIX secolo, Maria si riscatterà dalla sua condizione di miseria grazie all’amore, o meglio agli Amori, ora agiti, ora esperiti, in un processo di trasformazione segnato dagli ostacoli e dal dolore tanto quanto dal ritrovarsi e dal riconoscersi attraverso gli occhi e i libri della benefattrice che le ha donato le chiavi delle mille porte della conoscenza e dell’immaginazione.

E questa sua trasformazione, che passa attraverso le lettere che il padre emigrato le invia dalle Americhe, in cui racconta di palazzi alti fino al cielo, di fotografie capaci di muoversi, di treni che corrono sullo schermo, è sostenuta dall’incontro con Domenico, aspirante fotografo, con cui lei scopre un altro Amore. 

L’amore per Domenico, l’amore per il padre, l’amore per la cultura, l’amore per il cinema, l’amore per sé stessa. Sullo sfondo la scenografia di un Sud chiuso e accartocciato su sé stesso dove i legami di comunità costituiscono ferree regole di convivenza a volte forzata. Intravedo assonanza, per sconfinare tra il cinema e la letteratura, con i romanzi di Verga o con opere come Dogville o Nuovo Cinema Paradiso.

Esatto. Quello di Maria è un viaggio che attraversa lo spettro di tutti i conflitti e le umane passioni in una terra in cui tutto è tremendamente difficile, specie per una donna, una terra dove qualsiasi cosa, compreso lo spazio vitale, va conquistato. Va sudato.

Nel libro coesistono diversi temi, primi tra tutti la questione femminile e la questione sociale: ci sono la miseria, la partenza, gli abbandoni, la povertà, i rapporti con i pezzi di famiglia che è emigrata, le catene del controllo sociale, i giudizi e i marchi verso chi si dimostra diverso.

E poi ci sono la consapevolezza e la speranza: perché Maria deciderà di rischiare il tutto per tutto, anche di passare per pazza, pur di realizzare i propri obiettivi di libertà, emancipazione e bellezza: a salvarla sarà il cinema, luogo in cui non ci sono limiti all’immaginazione.

C’è poi il rapporto di Maria con il padre e anche con la madre.

Il rapporto genitori/figli è un tema che ho voluto toccare e che emerge con una certa solidità dallo sfondo narrativo: non c’è solo l’amore filiale tra Maria e il padre, ma anche, in modo speculare e opposto, la frustrazione per una madre rancorosa, diffidente e incapace di scrollarsi di dosso la sofferenza patita nell’infanzia, che l’ha resa una donna materialmente e spiritualmente misera, così limitando e occludendo i suoi orizzonti; una donna zavorra la cui tendenza verso il basso si oppone all’elevazione costituita dal padre.

Si tratta dello stesso rapporto che c’è tra luce e tenebra. Di quel rapporto ben riassunto da un proverbio arabo che amo molto e che raccomanda al figlio che voglia ospitare i propri genitori di preparare per loro due stanze, una pulita e luminosa e una buia e sporca. Solo allora sarà pronto ad accoglierli. E a riequilibrare con loro il rapporto di un pendolo che in gioventù li santifica come supereroi e nella maturità riconosce i loro limiti e le loro miserie.

Da cosa hai attinto per scrivere il tuo ultimo lavoro?

Le mie ispirazioni sono state la storia di Elvira Notari, regista napoletana dei primi del Novecento, autrice negli Stati Uniti di oltre 100 pellicole poi deceduta dimenticata nel Salernitano e il lavoro compiuto da Ernesto de Martino, rinomato studioso, padre dell’antropologia italiana e autore di indimenticabili saggi e documentari sul Meridione d’Italia (basti citare solo La Terra del Rimorso o Sud e magia), in cui, mostrando uno specchio ai lucani dell’entroterra, registra le loro reazioni di stupore e meraviglia di una visione così nitida. 

Il tuo romanzo è un lavoro di immagini e per immagini, un collage di storie e di rifrazioni, di denuncia e di riconoscimento. E un posto particolare è ricoperto dal cinema.

Il cinema è la chiave: rappresenta al tempo stesso la via di fuga e la soluzione. In fin dei conti è il co-protagonista di un romanzo in cui non solo salva la protagonista, ma rappresenta, così come fece la televisione negli anni Cinquanta, quella finestra sul mondo capace di smantellare l’isolamento di Paesi, popoli e persone. È al tempo stesso processo e strumento di democrazia culturale e incarna il ruolo salvifico che l’immaginazione può avere nella vita di ognuno di noi.   


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