Si è inaugurata lo scorso 4 dicembre a Reggio Calabria Tratti d’ombra, la personale di Tina Sgrò, artista e pittrice reggina, nata, cresciuta e formatasi in una periferia meridionale d’Italia, in una Calabria il cui racconto per immagini riporta a un tempo antico e sospeso, un tempo cristallizzato che si trasforma (e trasfigura) in un pigro pomeriggio del Sud, con i suoi tagli di luce che fasciano e avvolgono interni di dimore, oggetti, suppellettili, ambienti.
Dopo la formazione artistica e qualche sperimentazione come creatrice di logotipi, approda all’universo della pittura. Al suo attivo un lungo curriculum di opere, collaborazioni, riconoscimenti in tutta Italia: vincitrice del premio Arte Mondadori nel 2006, di bandi per l’acquisizione di opere d’arte presso la Corte d’Appello di Potenza, la Questura e la Polizia di Stato di Grosseto, finalista al premio ArteLaguna del 2011 e 2013, a quello Arteamcup del 2016, vincitrice del premio Marchionni 2017 nella sezione Grafica, realizzatrice di un’opera da esporre presso le Nappe dell’Arsenale di Venezia, pubblicata in copertina e citata dalla rivista AD, collabora anche con il Mart di Rovereto ed è apprezzata da critici come Rolando Bellini e Vittorio Sgarbi che di lei ha scritto: «È la realtà interiore che le interessa, mentre descrive ambienti e spazi desolati, divorati dal vuoto, risucchiati dentro di lei. Quegli ambienti sono ritratti. Dipingere non è illustrare, non è far vedere le cose come sono, ma far sentire le musiche, le parole, le emozioni che un luogo, una stanza, un paesaggio determinano nel pittore che le trasmette a chi guarda».
Per dare un esempio immediato delle emozioni che la sua pittura riesce a stimolare posso dire che ammirare un’opera di Tina è come fare una lunga passeggiata dei ricordi a casa dei nonni, per lo meno dei miei: stanze ampie, soffitti alti, soffici tende di taffetà ed organza mosse dalla brezza che, assieme a frecce e macchie di luce del primo pomeriggio di primavera, inonda e nutre ambienti di un Sud che non c’è più, ma che resta vivido nelle memorie e vivente nei cuori e nei cervelli.



La sua pittura, nel suo realismo trasfigurato e trasfigurante, è sinestetica, evocativa, quasi proustiana nel senso che ha la capacità di toccare corde dell’animo e della memoria capaci di suggerire agli sguardi mondi passati, ricordi di infanzia, suoni di un tempo che fu, colori e odori in grado di generare viaggi nelle memorie familiari.
Un percorso in cui, purtuttavia, il passato torna presente e nel quale la presenza dell’elemento umano, formalmente assente sulla tela, si impone, stagliandosi nella ricostruzione delle opere che il pubblico attua: «Cerco di fare rivivere gli oggetti, di risvegliarli e riportarli a una dimensione contemporanea. Lo faccio solleticando le esperienze e i passati dei miei spettatori legate agli interni e nature morte che ritraggo.
Allora quegli stessi oggetti, quegli elementi di arredo legati alla quotidianità tornano a vita nuova attraverso la rielaborazione del mio pubblico, i ricordi di un divano, di un’esposizione di luce, di una macchina da cucire la cui presenza emerge letteralmente dal dipinto e prende corpo imponendo la sua presenza.
È la mia personale dialettica tra anima e oggetti, tra anima e la rappresentazione di quegli stessi oggetti, tra anima e vibrazioni che emergono dall’impalpabilità fisica, quasi dall’ineffabilità di quegli stessi oggetti».
E, allora, quel senso di vuoto che deriva dalla mancanza dell’elemento umano nelle sue opere d’improvviso scompare: «nei miei quadri l’elemento umano si trova in una dimensione altra che non è fisica né tangibile».
Nei suoi quadri, intrisi di esistenzialismo e realizzati attraverso pennellate veloci, immediate, graffiate e graffianti ispirate allo stile di Papetti e Giacometti, è possibile trovare riferimenti a due artisti molto diversi tra loro: David Hockney, il pittore inglese del periodo californiano in cui gli spazi e le piscine vuote collocate in ambienti amplii e soleggiati fanno sì che l’immobilità del dipinto porti lo spettatore a fantasticare sulla loro vita, immaginandone i dettagli; e Marlene Dumas, artista poliedrica, polemica, dirompente, sensuale, di rottura, capace di dare forma allo spettro delle emozioni umane e trasmettere per immagini la grevità dell’essere con i suoi drammi e i suoi processi di rielaborazione catartica, figlia di quel processo maieutico per cui è solo dalla relazione che emerge ciò che realmente si vuole essere e trasmettere.
Ed è da queste premesse che, fermandosi a osservare le pennellate robuste e al tempo stesso diafane, fatte di luce e del suo opposto, nel formarsi di un vero e proprio dialogo muto con l’opera e con la sua autrice, i quadri di Tina iniziano ad assumere vita propria: le sue stanze dipinte escono letteralmente dalla tela per danzare con gli spettatori: «perché la mia pittura trova senso nella relazione, nella cooperazione tra artista e pubblico, dove il primo accenna delle tracce e il secondo le sviluppa, costruendo il proprio racconto».
E poi c’è la luce raffigurata a volte a fasci, altre come la lama brillante di un pugnale capace di trafiggere e rinegoziare il rapporto tra lo spazio e il tempo. Una luce vivida, a volte abbagliante, altre timida e tenue, che riesce a prendere lo spettatore per mano e a condurlo dentro il quadro alla ricerca della sua origine, esplorando i meandri dei chiaroscuri che crea in rapporto agli oggetti e agli ambienti che colpisce.
Una luce che sa farsi concava e convessa, che è al tempo stesso melodia e musicalità. Che rappresenta il viatico e il passaporto per effettuare un viaggio totale fuori e dentro se stessi.
Un percorso a piedi nudi e mani tese a pelo d’acqua su quella sottile linea che delimita il mondo di sopra da quello di sotto, ma che, allo stesso tempo, li mette in comunicazione: «Sono sempre stata affascinata dalle terre di confine. Mi è sempre piaciuto non riconoscere immediatamente un oggetto raffigurato, ma essere messa nella condizione di dovermi fermare e guardare più in profondità, chiedendomi di che cosa si tratti.
Mi piace il mosso, tutto quello che è situato ai confini della riconoscibilità. Quindi questa caratteristica si è mantenuta. Io faccio un tipo di pittura dove non ci sono oggetti ma ci sono tutti perché tu poi li costruisci nella tua testa. Perché la mia pittura trova senso nella relazione, nella cooperazione tra artista e pubblico».
Tina Sgrò possiede la rara capacità di trasformare la fatica della ricerca e del dialogo interiore in arte, perché quella sua fatica che l’ha condotta dai tempi della sua formazione reggina a Milano, Rovereto, Venezia è stata il mezzo col quale si è trasformata da artigiana ad artista: «Si diventa artisti dopo che si è stati artigiani. Ci vuole tempo, pazienza, sudore.
Si tratta di un percorso umano e personale che attraversa tutta la mia vita e le mie relazioni, in primis quelle familiari che, all’inizio della mia carriera, erano preoccupate per le mie scelte, salvo poi appoggiarmi in toto una volta notato l’impegno e l’abnegazione profusi per realizzare il mio sogno».
Ma Tina è anche un’artista del Sud, una che il Sud lo porta dentro di sé e che per anni ha combattuto con istituzioni come l’Accademia di Belle Arti di Reggio da cui è stata sempre snobbata. «Quando mi chiedono il perché io non raffiguri il Meridione soleggiato dei luoghi comuni, del mare, dei muri a secco, delle campagne arse e steppose, rispondo che il Sud è qualcosa che ho dentro di me, che ritrovo nell’accoglienza e in alcune forme di socialità, ma sono convinta che essere nata in questa periferia del Mezzogiorno sia stata una casualità.
Perché mi porto dentro qualcosa che è estraneo e altro rispetto alla mia terra. Non amo dipingere il mare, né i gialli, i blu e i verdi vividi. Prediligo le cromie fatte di rosa cenere, grigio, bianco strisciato e filamentoso che entra dalle fenditure. Il Sud dei miei dipinti è quello della luce che ferisce le antiche dimore fatte di soffitti alti quattro metri e mezzo, di stucchi e di penombre per proteggersi dal sole.
Ma è anche iil Sud che chiede riscatto e pari dignità, un Sud che ha bisogno di scrollarsi di dosso un doppio fardello: il provincialismo di chi lo popola e quello di chi lo addita dal di fuori, senza riuscire a coglierne le reali potenzialità. Il Sud che viene guardato da un certo mondo dell’arte come minus habens, come periferia, come un altrove contro cui è ormai tempo di stringere un’alleanza di resurrezione.
Ecco: mi piacerebbe che emergesse una presa di coscienza supportata e incoraggiata dalle istituzioni per scardinare certi meccanismi, certi pregiudizi».
Come? «È necessario dare spazio di parola, espressione ed azione a personaggi che, attraverso il loro lavoro e il loro esempio, diventino testimonianza di successo, per dire: come ho fatto io, potete fare anche voi».