L’editoriale: tutte le declinazioni dell’hijab

di Elisa Mauro

«E di’ alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne». Corano – Sūra XXIV, 31

Hijab è una parola composta da varie interpretazioni. In genere, per hijab s’intende qualsiasi tipo di copricapo utilizzato da certe donne islamiche per rendere occulte parti del capo sessualmente riconoscibili, i capelli, il collo e il décolleté

Se per alcuni quella del velo da indossare è una tradizione lungamente culturale tramandata da millenni da madri a figlie, per altri è un’imposizione misogina e patriarcale dettata da certe concettualizzazioni estremiste dei libri sacri ai musulmani. 

Il Corano, il testo più importante della religione islamica, e Ḥadīth, letteralmente tradizione, ossia i racconti e le catene narrative che hanno portato la voce e il verbo di Maometto, «l’uomo che tutti i musulmani riconoscono loro profeta» fino ai suoi discepoli contemporanei, sono le fonti principali da cui fedeli e gli eredi diretti del Profeta, gli imam, prelevano la suggestiva interpretazione della parola sacra per renderla costume nella società che vive. 

Ma di fatto nel Corano, come spiegano molti studiosi e scrittori, non è presente alcuna distinzione né superiorità dell’essere uomo rispetto alla donna e anche l’aggettivo preposti (superiori, ndr) nel versetto da sempre incriminato come eccessivo: «Gli uomini sono preposti alle donne perché Dio ha prescelto alcuni di voi sugli altri e perché essi donano parte dei loro beni per mantenerle», in realtà, non può prescindere da una connotazione storica differente rispetto a quella contemporanea, in cui a sostenere con il lavoro la famiglia, le donne stesse, erano gli uomini, come accaduto in Occidente e in molti Paesi di estradizione cattolica fino a una manciata di anni fa. 

San Paolo, le Vestali e il velo di una cultura cristiana

Fu San Paolo, inventore del cristianesimo, a esprimersi in questo modo in una Lettera, la prima, ai Corinzi (11, 2- 16):

«Voglio che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con la testa coperta manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna, che prega o profetizza senza velo sulla testa, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra». 

Furono proprio le Vestali a ispirare il santo e dichiarare il velo sinonimo di castità. Alcune donne, in particolare del Sud Italia, prive di scolarizzazione e vittime da sempre di sottomissione e cruento conservatorismo, fino a pochi anni fa interpretavano alla lettera le parole di San Paolo insegnate loro da qualche prelato di paese. Una tradizione culturale che si trascinava anche nelle altre ore della giornata, quando si svolgevano tutte quelle attività che si tenevano in società, alla vista di molti.

Velo pagano: rispettabilità, dignità, modestia e provocazione

Presso gli antichi Assiri le donne non velate erano prostitute, epiteto che apparteneva indistintamente a tutte le donne non maritate. 

Il velo dunque, anche in tempi pagani, era visto come segno socialmente incontrastato e necessario di rispettabilità, dignità e modestia fino a connaturarsi diversamente dopo poco perfino come elemento di seduzione attraverso l’utilizzo che molte ne facevano nei balli e nelle danze tradizionali o negli imbellettamenti eccessivi per contrastarne quella ormai insopportabile imposizione. 

Il velo contadino a Sud

A Sud della nostra Italia, nell’area mediterranea, il velo fu poi indossato per coprirsi il capo durante le ore più calde di esposizione al sole quando si lavorava in campagna e per tenere i lunghi capelli quanto più sistemati e puliti. 

E lo mantenevano per tutto il giorno, durante le riunioni “sindacali”, nei lavori casalinghi, in Chiesa, come segno di riconoscenza e di appartenenza a una classe contadina prettamente femminile che si andava ad affacciare negli anni prima delle grandi guerre e che sarebbe diventata poi indispensabile per la prospettiva di crescita economica delle regioni più a sud. 

Mahsa, inconsapevole icona della lotta femminista in Iran

Il velo oggi è martirio per le donne islamiche che vivono in Iran e che combattono dal 16 settembre, giorno in cui fu assassinata brutalmente dalle forze dell’ordine iraniane una ragazza di appena 22 anni di nome Mahsa Amini, divenuta inconsapevolmente icona femminista della rivolta, e uccisa per aver mostrato una ciocca di capelli scivolata oltre quel velo.

E se Ong Iran Human Rights (IHR) con sede a Oslo continua a denunciare uccisioni di civili e giovani donne, studentesse ribelli contro il potere vigente e le più alte autorità religiose – più di 200 dall’inizio di questa ultima guerriglia – a guardare bene in mezzo ai rivoltosi ci sono anche uomini e bambini, tutta la nuova società con i suoi vagiti e che da Rasht a nord fino a sud di Kish passando per Isfahan e la capitale Teheran sfoggia la vera consapevolezza, l’idea di non voler essere assoggettati agli obblighi di dittatori in difesa di quelle libertà civili, sociali, economiche e democratiche che necessitano di vedere la luce come vitelli nascenti. 

Il velo obbligo di legge, non di fede

È fatto obbligo in Iran e Afghanistan l’utilizzo dell’hijab. Dal 2018 in Arabia Saudita non è più sottoscritto né imposto dalla legge, sebbene il principe ereditario Mohammad bin Salman abbia affermato che le donne saudite, come accade in altri paesi del Golfo, devono ancora indossare «abiti decorosi e rispettosi».

Un chador è un indumento tradizionale tipicamente iraniano (indossato anche in altri paesi) che copre la testa e il corpo ed è un semicerchio di tessuto che scende fino a terra. Non ha fessure per le mani e si tiene chiuso abbracciandolo. Il burqua copre l’intero corpo e ha una griglia stretta sul viso attraverso cui la donna può distinguere ciò che incontra per la sua strada. Ma si differenzia a sua volta dal bushiya che non possiede un taglio per gli occhi, come avviene per il niqaab, utilizzato per coprire interamente il viso lasciando scoperti solo gli occhi per mezzo di una fessura.

Il quotidiano francese Le Monde ormai diversi giorni fa ha pubblicato un rapporto ufficiale dell’amministrazione iraniana intitolato Progetto castità e hijab. Un documento di circa 220 pagine redatto dal Quartier generale della promozione della virtù e della prevenzione del vizio, avente l’obiettivo di «fermare la perdita di influenza ideologica del regime e l’indebolimento del suo controllo sulla società». 

Promettono di aggiungere molte più pattuglie di guardiani, videosorveglianze e centri di riabilitazione e di rieducazione per chi non osserva le regole religiose alla base della teocrazia islamica che stanno per essere attaccate dal quel «crollo dei valori» e dalla perdizione di matrice occidentale o piuttosto, come pensiamo noi, dall’emergere di questa nuova meravigliosa società all’attacco del vero male culturale.


Se ti è piaciuto questo articolo, leggi anche L’editoriale: chi ha paura dell’altro?

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