di Elisa Mauro
Artista, visionaria, come poche, forse l’ultima, Patrizia Cavalli da qualche ora a questa parte brilla da stella nel firmamento della poesia.
C’è che i poeti chissà dove tornano, quando muoiono, eppure hanno il buon senso di restare sempre qui, con noi, a dedicarci rime e versi che si annidavano da qualche parte della nostra anima ma che non avremmo mai saputo decifrare in quei modi da profeta.

Patrizia Cavalli è essenza di fisiologica poesia, sebbene i suoi tempi siano stati quelli angusti e vorticosi del diplomatico intellettualismo di parte. Tutti a giudicarci, a rendere difficili i nostri scambi, le nostre parole verso l’altro. Lei no, sapeva fare del comune una cosa raffinata, dell’uguale l’elegante, dell’insieme una cosa davvero per pochi.
Essere testimoni di se stessi (Il cielo 1981)
Essere testimoni di se stessi
sempre in propria compagnia
mai lasciati soli in leggerezza
doversi ascoltare sempre
in ogni avvenimento fisico chimico
mentale, è questa la grande prova
l’espiazione, è questo il male
Nata a Todi due anni dopo la fine della guerra, quando la poetessa umbra si trasferì a Roma conobbe quella che sarebbe diventata forse la sua più grande amica: Elsa Morante, a cui dedicò la prima sua raccolta in versi. Morante ricambiò il dono prezioso definendola in sintesi «la poesia».
È a Roma che Patrizia Cavalli dedica tutta la sua vita letteraria, gli studi, la laurea precipitosa in Filosofia, la passione per la traduzione di testi teatrali, come l’Anfitrione di Molière e La tempesta di Shakespeare.
Tra la metà e la fine di quegli anni Settanta burrascosi e tormentati per Rai scrisse due radiodrammi, La bella addormentata e Il guardiano dei porci.
I suoi sono riconosciuti dagli accademici giudicanti canoni metrici classici, ardimentosi, ma gli abiti che indossano hanno il gusto della bonarietà, il profumo del sapone di marsiglia con cui le massaia lavano i panni e li stendono al sole tra le finestre opposte di una stessa strada di periferia o sanno di vaniglia, la stessa con cui le casalinghe preparano le torte per i propri pargoli. Sanno anche di ciao detto tra un sorriso sincero e due occhi lucidi, sono poesie che parlano di vite protese alla vera identità.
Le mie poesie non cambieranno il mondo (G. Einaudi, 1974)
Qualcuno mi ha detto
che certo le mie poesie
non cambieranno il mondo.
Io rispondo che certo sì
le mie poesie
non cambieranno il mondo.
Tutta la produzione artistica di Patrizia Cavalli ha il suono dolce delle cicale in agosto e dei rospi che cantano canzoni d’amore. La esitazione gentile di chi sa di poter fare male e la forza di chi vuole amare ad ogni costo. Senza arroganza, né presunzione. Il saper fare poesia è una cosa a lei riesce come respirare. La funzione della poesia, lo spiega a più riprese, deve essere chiara a tutti, grandi e più piccoli: la poesia eleva, non cambia il mondo, perché il mondo è fisso, statico, ma la mente di un uomo no, può e deve sollevarsi.
Insieme a Maria Luisa Spaziani, Vivian Lamarque, Amalia Rosselli e Anna Maria Ortese è stata inserita nell’antologia intitolata Donne in poesia.
Per la Collezione di poesia di Einaudi pubblica alcune raccolte di successo: Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974), Il cielo (1981), L’io singolare proprio mio (1992). Ancora per Einaudi: Sempre aperto teatro del 1999 Datura del 2013 e Vita meravigliosa del 2020, appena due anni fa.
Con il suo unico romanzo Con passi giapponesi del 2019 si accaparra il Premio Campiello.
Di lei hanno parlato i più grandi. Il filosofo Giorgio Agamben ha paragonato Patrizia Cavalli a un «poeta disincantato e quasi preistorico, maestro incomparabile dei metri e delle rime interne, sovranamente privo di scrupoli morali».
In lei convergono la convivialità di Umberto Saba, il rigore della facile comprensione di Sandro Penna, la strafottente linea antinovecentesca che ha voluto strappare dal grembo la vita vera alla poesia fino a quel momento tenacemente bistrattata dal manierismo poetico di facciata.
Patrizia Cavalli è la rivoluzione di una certa poesia, il fascino sognante di una donna amata e amante, il carattere guerriero di chi conosce i segreti dei suoi nemici, la storia sfavillante di una normalità reale, quanto più vicina a noi.