L’aborto ma non solo: la sberla dello Stato etico allo Stato laico

di Silvio Nocera

Premessa: parlare di aborto non è mai facile. Per me è doppiamente difficile sia perché non sono una donna, sia perché l’interruzione della gravidanza coinvolge un assetto psicologico, emotivo e morale così complesso che merita sensibilità, attenzione e decostruzione dai propri naturali convincimenti, quali che essi siano: etici, morali, religiosi. 

La decisione con cui la Suprema Corte statunitense ha affermato che «la Costituzione non prevede il diritto all’aborto” ha abolito la storica sentenza Roe vs Wade attraverso cui negli Usa il diritto all’interruzione di gravidanza era stata riconosciuta dalla stessa Corte nel 1973. Il caso coinvolse la texana Norma McCorvey alla quale fu riconosciuto il diritto di mettere fine alla gravidanza del terzo figlio concepito con il marito, violento e con problemi di alcolismo. Con quel pronunciamento la Corte Suprema diede ragione alla donna contro l’opposizione dello Stato del Texas.

The Supreme Court

Prima di allora, l’aborto negli Stati Uniti era disciplinato da ciascuno Stato con una legge propria ed era proibito in 30 Stati, mentre nei restanti poteva essere praticato a certe condizioni come la deformazione del feto, stupro, pericolo di vita per la madre. Soltanto in 4 bastava la richiesta della donna.

Si torna dunque al vecchio sistema

Secondo quanto stabilito dalla nuova decisione della Corte, ora i singoli Stati confederali saranno liberi di applicare le loro leggi in materia. Già Texas e Missouri rendono l’aborto illegale. Il nuovo pronunciamento della Corte arriva a conclusione della causa costituzionale intentata dalla Jackson Women’s Health Organization (JWHO) contro la la legge varata nel 2018 dal parlamento repubblicano del Mississippi, che vietava il ricorso all’aborto dopo la quindicesima settimana di gravidanza. Ben più dei limiti imposti per l’aborto volontario dalla legge italiana che fissa il limite massimo ai tre mesi, ossia 12 settimane, tempo entro il quale la vita viene considerata “meno importante” di quella che scatta successivamente.   

Si apre dunque una nuova stagione di battaglie che avrà un’eco in tutto l’Occidente

Eppure, commentare una tale decisione, figlia di un sistema completamento diverso da quello europeo, non è semplice: da un punto di vista endogeno (interno al sistema statunitense) si tratta di un grande salto indietro che apre la strada a una deregulation basata sul principio di sussidiarietà verticale che, di fatto, abolisce un diritto confederale: l’aborto non è più costituzionalmente garantito (e in effetti la Corte ha ribadito che tale non è mai stato). 

Domenica scorsa Lucetta Scaraffia, giornalista e storica di cultura cattolica, con un passato importante nei movimenti femministi degli anni Settanta, ha pubblicato sulla Stampa una nota in cui, pur dichiarandosi contraria alla sentenza Usa, offre ai lettori una riflessione sulla questione con una domanda scomoda: «L’aborto può essere davvero considerato un diritto naturale, indipendentemente da ogni atto legislativo che lo sanzioni (perché è proprio ciò e solo ciò che la Corte americana ha negato)?».

La domanda giunge perché «l’aborto (…) formulato come un vero e proprio diritto naturale, di fatto coinvolge un’altra persona, cioè il padre del nascituro, e in un certo senso anche il possibile nascituro. E quindi, come si capisce, risulta oggettivamente alquanto problematico considerarlo un vero e proprio diritto naturale, trattandosi tra l’altro di una decisione che coinvolge altri interessati ma privi in alcun modo della possibilità di interferire».

L’autrice propone una soluzione drastica: quella della sua «pura e semplice depenalizzazione», argomentando che «(…) affermare il diritto all’aborto come un diritto naturale inalienabile delle donne infatti significa inevitabilmente negare qualunque diritto a chiunque altro a qualsiasi titolo sia interessato all’eventuale nascita di un essere umano. Limitarsi alla depenalizzazione dell’aborto significa invece consegnare la terribile decisione alla coscienza di chi la compie, e accettare quindi che questa scelta dolorosa venga pagata, nel corpo e nella psiche, dalla donna che la compie».

E questo è proprio il punto del mio ragionamento

Quelle stesse forze conservatrici che levano in alto gli scudi ogniqualvolta salti fuori il tema dell’Islam e delle teocrazie opposte alla laicità dei Paesi occidentali (ivi compresi gli Stati Uniti) pare lavorino per far regredire il principio di laicità dello Stato a favore di un suo assetto nuovamente etico, laddove tendono a porre divieti e paletti legislativi basati su credenze, opinioni, convincimenti, professioni di fede frutto di una certa morale di certi gruppi. Uno Stato che entra a gamba tesa in processi decisionali individuali complessi e dolorosi come quelli che concernono l’aborto (che, di certo, non lascia la donna che lo pratica o lo subisce indifferente) rischia di attentare all’interesse generale della collettività che dovrebbe regolamentare, relegando determinati gruppi a una marginalità pericolosa, per sé, per le loro vite e per tutta la società. 

Uno Stato democratico laico ha sì il dovere di legiferare anche e soprattutto su temi controversi e complessi, ma deve farlo partendo da un principio: dare a tutti i cittadini le stesse possibilità di decidere su temi etici che coinvolgono loro e le loro famiglie senza imporre divieti, ma lasciando determinate decisioni appannaggio del loro libero arbitrio e dunque delle conseguenze etiche e morali che esse comportano.

Contrariamente, si rischia di prestare il fianco a pericolosi precedenti attraverso cui il viatico si fa troppo stretto. Impressione confermata dalle dichiarazioni del giudice costituzionale Clarence Thomas che, a margine della recente sentenza, ha dichiarato «È giunto il tempo di riconsiderare le precedenti decisioni in tema di unioni per coppie dello stesso sesso e contraccezione».

L’America puritana è viva e vegeta e cammina, ahimè, con noi.   


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