C’è chi lo definì «uno dei grandi profeti della civiltà», perché pochi come lui furono in grado di cogliere e comprendere la condizione umana nel suo intimo, quella che scava le profondità dell’anima senza ferirle.
Rembrandt Harmenszoon van Rijn o semplicemente Rembrandt è di certo uno dei più grandi pittori della civiltà.
Probabilmente affetto, secondo un recente studio condotto sui sui autoritratti, da “perdita di stereopsi”, che gli procurò un difetto nell’allineamento della vista, per il pittore di origini fiamminghe nato nel 1606 da famiglia di ebrei benestanti si dimostrò sin da subito utile la capacità di cogliere oltre ogni apparenza la bidimensionalità del mondo, per poi trascinarla sulle tele.

Appassionato di sua cugina Saskia, con cui convolò a nozze, il povero Rembrandt perse numerosi figli prima che raggiungessero il primo anno di vita. Più volte provò a dare il nome Cornelia a chi nasceva femmina, ma solo l’ultima delle tre, avuta con la domestica, a seguito della morte dell’amata Saskia, riuscì a sopravvivere all’età infantile. Con Titus riuscì a veder crescere un figlio fino all’età adulta.
Nella pittura sin da ragazzo aveva dimostrato grande impegno e talento tanto da farne mestiere. La sua firma fece presto il giro delle bocche, anche e soprattutto nobili e principesche, così da innalzargli il valore, e quello delle mani, così da poterlo anche monetizzare.
Tratto deciso, distinto, pennellate roventi sulle colline e in mezzo ai paesaggi di autentica vita da Antico Testamento o sui campi di battaglia o tra le espressioni di volti noti, morenti, sognanti. Nonostante le chiare e nitide caratterizzazioni della sua pittura, Rembrandt continua a essere uno degli artisti che darà più filo da torcere in termini di autenticità delle sue opere.
Molti dei dipinti ritenuti di Rembrandt sembrano in realtà appartenere ad alcuni dei suoi allievi e nel tempo il catalogo critico dei suoi quadri si è fatto via via mutevole, a volte più snello altre meno. Sarà stata la sua firma trasformista, da anagrammata dei primissimi tempi fino a quella più tempestosa degli ultimi, a modificare ogni volta il pensiero sulla veridicità delle tele e dei disegni, eppure scoprire un quadro di Rembrandt è immergersi, come in nessun altro luogo, nei chiaroscuri sapienti e calibrati, nelle ombre caravaggesche e nella teatrale compostezza dei suoi protagonisti, siano essi uomini e donne di fede, delle più svariate, o oggetti inanimati o paesaggi o perfino animali.
Prendere vita in un disegno e sapersi poi difendere dalla stessa è un tratto distintivo della sua opera pittorica. Si esprime ogni volta la verità di ciò che vediamo o immaginiamo ma approfondita, legata a un concetto d’eterno, assoluta.
E su questo filo, sulle innumerevoli discussioni intelaiate con esso, che nasce Il mio Rembrandt, un film-documentario diretto dalla regista olandese Oeke Hoogendijk e distribuito da Nexo Digital.
Nella pellicola, che nella versione italiana sarà nelle sale dal 6 all’8 giugno, l’amore per le opere del pittore e incisore fiammingo domina padrone. Ci sono i collezionisti Eijk e Rose-Marie De Mol van Otterloo, l’americano Thomas Kaplan e, infine, lo scozzese Duca di Buccleuch. Personaggi spesso antitetici, ma uniti da una sola cosa: la passione per i tratti e i chiaroscuri di Rembrandt, i racconti che solo un grande pittore come lui riesce a sviscerare da una comune tela di fermi immagini.
Quando il banchiere Eric de Rothschild decide di mettere all’asta due opere considerate dell’artista, prende avvio una guerra politica tra il Louvre di Parigi e il Rijksmuseum di Amsterdam per ottenerla. Ma non solo. Nel film si raccontano altre storie, importanti, sul nome di Rembrandt e la sua magnificenza.
C’è infatti anche un mercante d’arte olandese di nome Jan Sia che intraprende viaggi per scovare i dipinti appartenuti all’autore ma non ancora autenticati.
Come spiega la regista: «Il mio obiettivo era creare un dramma shakespeariano, mostrando i personaggi principali con ogni elemento umano». Passione, conoscenza, cultura, ma anche vezzi altoborghesi e imbrogli accompagnano molta della narrazione de Il mio Rembrandt.
«Non è Rembrandt in persona, – spiega ancora Oeke Hoogendijk – ma la loro passione per lui che gioca il ruolo principale. La domanda che rimane dopo aver visto il film non è “Cosa facciamo oggi con l’eredità di Rembrandt?”, quanto piuttosto: “Cosa c’entra con noi l’eredità di Rembrandt?”.
Il dettaglio che incastra lo spettatore alla sedia è di certo solo uno, la febbre che nutrono i protagonisti nell’unico vero protagonista, il pittore fiammingo che riuscì con la sua determinata ossessione per l’arte e la pittura a includere sulle tele quello che i suoi occhi vedevano, che la sua anima amava e che la sua mente sognava.

L’ossessione per Rembrandt è più comune di ciò che si pensa e nasce dalla emotività dei suoi dipinti, dalla possibilità di farne parte, come se ci venisse incontro e ci aprisse una finestra, lì dove vogliamo noi, in una parte a caso del suo dipinto, senza turbare la perfezione di linee, geometrie e colori.
Questo equilibrio magnifico di sentimenti e logica è espresso da un autore altrettanto magnifico come Victor Hugo che ne I miserabili inserisce Rembrandt tra i pittori «che hanno il caos nel pennello», nello stesso capitolo in cui il generale inglese propose la resa nella battaglia di Waterloo e Cambronne in tutta risposta urlò: «Merda!» dimostrando il disappunto, che gli costò la vita, contro una guerra che come ogni guerra, anche quella per accaparrarsi un’opera vera o presunta di Rembrandt, nasconde menzogne e retrovie.
[Redazione]