di Elisa Mauro
Se ne parla da anni e sta letteralmente imperversando tra le nuove patologie sociali. È un fenomeno contemporaneo e prende le sue sembianze del nostro peggiore riflesso. Si chiama FOMO, acronimo di Fear Of Missing Out, ossia paura di essere tagliati fuori, e rappresenta l’ansia legata al perenne desiderio di dimostrare abilità e “impegno” tramite i nuovi canali virtuali e di interazione sociale digitale. Dimostrandoci come individui sempre al passo con i nostri tempi non ci sentiamo esclusi dal resto del mondo (connesso come noi) che sembra macinare sempre più velocemente e più abilmente. Come genitori a cui si chiede amorevole attenzione e apprezzamento, i social sanno confrontarci in maniera spietata con i tutti i loro figli in un continuo gareggiamento che spesso ci vede né perdenti né vincitori: solo molto molto stanchi.
FOMO subentra quando scorriamo feed o homepage della lista dei post di amici e conoscenti dei più importanti social network, Facebook, Instagram e LinkedIn, e sentiamo di non appartenere allo stesso divertimento o diligenza o passione di tutta quella comunità che macina professionalità e svago come se piovessero, tra scatti filtrati di vita e improbabile auto-celebrazione.

Abbiamo paura di essere esclusi, quasi continuamente. Una paura che però si manifesta, non evitando di mostrarsi, ma facendo come gli altri, spingendosi nel vortice dei post, dell’autoproclamazione e della vittoria in qualsiasi ambito della vita.
Ma cosa c’è davvero dietro a questo fenomeno che può provocare anche serie patologie psicologiche? Il fenomeno è concreto e diffuso, confermano gli studiosi, e comincia ad assumere le forme di un mostro gigantesco che attanaglia le nostre stesse esistenze.
FOMO non è solo un concetto ma è soprattutto un segnale di una sofferenza emotiva che sfocia – potrebbe farlo realmente – in comportamenti compulsivi che avvengono fuori dal mondo digitale, cioè nel mondo reale e che modificherebbero di fatto i rapporti carnali, vicini, sentiti con i nostri cari e con chi abbiamo a che fare quotidianamente.
Al contrario del disturbo evitante, che schiva ogni possibilità di interazione e la cui condizione principale è il disagio, con FOMO si ostenta l’inverosimile, il costruito, la fiction, perché tutto appaia meglio di come è nella realtà, più felice della vera inquietudine che nutriamo ogni giorno, più sereni di come effettivamente siamo.
FOMO è ciò che ci spinge a condividere in modo assillante tutto ciò che ci è possibile condividere: sentimenti, manifestazioni di azioni, anche rimediandoli dagli altri, o commentando tutto ciò che proviene dai cosiddetti influencers o nuovi opinion leader, che non è detto che siano professionisti in qualcosa, in genere sono quelli che ci sanno fare combinando ovvietà con considerazioni ritrite che possono avvantaggiarsi tra scambi propulsivi di like, apprezzamenti e lodi o, tra questi, i cosiddetti provocatori che criticano in negativo la posizione dominante e più favorevole per ottenere lo stesso tipo di celebrazione.
Chi è colpito da questo fenomeno, dicono gli esperti, è prevalentemente un uomo, giovane o giovanissimo, studente o lavoratore, che usa i social network per dissimulare problemi che hanno a che fare con la vita reale, come non appropriatezza nei contesti di interazione nelle comunità dei pari.
È importante per gli adolescenti essere e sentirsi al passo con i propri compagni: è l’imperativo del loro benessere in un momento così delicato per la loro crescita umana. In situazioni come queste si sentiranno migliori e peggiori di qualcun altro e sarà importante per il tutore, il genitore, garantire sostegno monitorando il disagio che può essere dal basso livello fino a quello più preoccupante.
Molte teorie sociali si sono accaparrate questo nuovo fenomeno cercando di spiegarlo al meglio, come ad esempio la teoria del controllo sociale che presuppone l’appiattimento e l’omologazione a livello culturale attraverso un controllo dall’alto. In questo modo chi è a capo di questo processo di controllo e sottomissione può manipolare anche le percezioni di essere e sentirsi parte di un gruppo coeso e ricreato grazie alle regole che sono state utilizzate per favorire una legittimazione di ciò che si può fare e pensare. Tutto ciò che non è incluso in questo processo di legittimazione è fuori. Tagliato fuori.
La FOMO (Fear of Missing Out), in tal senso, è responsabile – secondo questa teoria – del controllo sociale, quando fa ritenere un individuo inopportuno, fuori, addirittura una minaccia alla serenità del gruppo. Ma non è solo una questione percettiva. Tutto entra a far parte del nostro corpo, il dolore che percepiamo è profondo e spesso si confonde con quello che sembrava essere una vaga idea di inadeguatezza.
Quindi, cosa fare?
Essere – o sembrare – impegnati sui social media favorisce un corto circuito, in cui ad avvantaggiarsene sono disforia e depressione. Ricerca costante di apprezzamenti, di like, di favori, di scambi di condivisione ci fanno entrare in un tunnel buio e dalla fine inarrivabile. Tutto, dicono gli studiosi, si basa sul concetto della competizione sociale.
Una delle prime ricerche sulla FOMO effettuate nel National Institute of Mental Health ha evidenziato che a soffrire di depressione a causa di questo fenomeno sono circa 16 milioni di americanI: il 7% dell’intera popolazione a stelle e strisce. Una paura che si concretizza malamente nella fisiologia, nella realtà. A questo risponde Unicef con una campagna di sensibilizzazione sociale su un altro genere di paura, quella derivante dalla guerra, dagli autoritarismi e dalle dittature, dalla povertà e dalla mancanza del necessario.
Con FOMO siamo evidentemente su un altro piano, di un’altra società. E la distorsione della felicità, l’apparente serenità, l’ostentazione del benessere, la proclamazione dei successi, ma soprattutto la negazione degli insuccessi, il rifiuto della pesantezza umana, della tristezza, del dolore (come se non lo si provasse, come se non esistesse) stanno portando a inserirci in un vortice di finzione (dal latino fingere: creare, fabbricare, ricreare) che degrada il buon funzionamento della stessa riflessione, del meccanismo autonomo di pensiero critico.
Attraverso i nuovi canali di comunicazione digitale il pensiero è dato, fornito, già costruito. Pronto per essere utilizzato. Come cibo in un qualsiasi fast food. Pensiero veloce, gratuito, cancerogeno. Ne sono un esempio i meme, le grafiche testuali confezionate per le condivisioni compulsive, dal buongiorno alla buonanotte, fino alle citazioni improbabili di autori e poeti senza averne mai letto neppure la biografia. E chi vince è colui che è in linea con il pensiero dominante, con l’idea-prima che ha ricevuto maggiori favori e attestati di stima.
Il potere di decidere e di riflettere sono sempre appannati delle nostre debolezze, dal richiamo della competitività, dal desiderio di sentirsi al pari, ma spesso, soprattutto sopra gli altri. Un mondo migliore, quello che viviamo probabilmente, contempla anche la possibilità di esserne oltre.