Rhapsody in blue di George Gershwin: caleidoscopio della società americana

di Elisa Mauro

Fu l’epoca che concluse il capitolo del Proibizionismo. Fu l’epoca dei banditi cosiddetti leggendari, come Alfonso Capone, un mafioso di origini italiane reso un divo romantico celebrato nei film e nei copioni teatrali di mezzo mondo. Il boss, suo modo, si distingueva e si omologava perfettamente a quell’America cangiante ormai devota al dio del trasformismo e del pasti sempre più rapidi, alle inflessioni degli innumerevoli dialetti umani che l’abitavano e alle sceneggiate degli immigrati coi pantaloni di casa, che  venivano esaminati dapprima in Ellis Island, dove furono comunque accolti e poi verso il traghetto per Manhattan

George Gershwin

Chi ci nasceva, in America, a Brooklyn, non restava immune a questo cambiamento, nasceva che era figlio di quegli immigrati ebrei, padre ucraino e madre lituana, che avevano viaggiato tanto per raggiungere una più solida e accogliente abitazione. Ci cresceva che a quindici anni lasciava la scuola per trovare lavoro in Tin Pan Alley, la più grande industria musicale statunitense, magari come song plugger, uno di quei pianisti che suonano per vendere spartiti e roba di quel genere. Chi ci cresceva, in un’America così, diventava George Gershwin, un musicista autodidatta che si trasformerà nel fondatore del musical a stelle e strisce. Era l’America nuova, composita, colma di variabili, un’America che imparava a gesticolare, che imparava a distinguere e, finanche, a discriminare. 

Come spiegare il complesso americanismo di quell’epoca a ragazzi di altre? Con George Gershwin e la sua Rhapsody in blue, ad esempio. Alcune musiche fanno comprendere la complessità del sistema spazio-tempo meglio di qualsiasi altra cosa. Non ci sarebbe stato nulla di più americano, d’altronde. Quel brano da lì a poco sarebbe diventato l’impronta patriottica degli stati che si uniscono in un’unica marcia. Anche perché fino a quel momento le tante razze che popolavano l’America avevano goduto ognuna di una propria cultura, di una propria espressione musicale. 

Con la Rhapsody in blue ogni coacervo etnico si sentiva quasi rappresentato dal genere, dallo stesso sound che ricreava le cicatrici, le mancanze e tutto ciò che ancora ogni popolo di quell’America si portava addosso. 

Inizialmente la Rapsodia fu ideata con l’intento di riprodurla solo con due pianoforti. Ma fu grazie a Paul Whiteman che il brano in tonalità si bemolle divenne solo per pianoforte e big band. Fu così richiesto per il concerto alle Aeolian Hall.

Whiteman chiese espressamente di ripulire il jazz del brano dalle sbavature incolte e popolari che si trascinava dietro sin da quando era nato. Gershwin fece esattamente il contrario. Riportò l’impronta classicheggiante di cui aveva dotato il pezzo a quel livello popolare necessario per farsi comprendere da tutti, da tutta quella gente a cui era realmente destinato: il paese Terra. E questa volta senza alcun limite spaziale o razziale. 

«Ho costruito la Rhapsody come una specie di caleidoscopio musicale dell’America con il nostro miscuglio di razze, il nostro favoloso brio nazionale, i nostri blues, la nostra follia metropolitana», disse Gershwin riferendosi alla sua creatura. Di fatto ciò che fece Gershwin fu porre la Rapsodia in una linea di mezzo universale, il confine verso cui tutti potevano approdare. Ha lasciato che in quelle note le cose potessero essere autentiche senza per forza sintetizzarsi. 

Academy Symphony Orchestra – Rhapsody in Blue George Gershwin

Che si chiamasse opera o sinfonia o canzone, che differenza avrebbe fatto? Che fosse suonata in un jazz club o all’Operà cosa mai poteva cambiare alla natura della Rapsodia? Niente. Gershwin imparò a leggere la musica a dodici anni e scrisse Rhapsody in blue in sole tre settimane.  Il pianoforte è protagonista della sua vita e della Rapsodia, e non poteva essere altrimenti.

Per la registrazione del 1927 il brano ricevette negli anni settanta il Grammy Hall of Fame Award, istituito per celebrare brani particolarmente simbolici di un’epoca, di un popolo o di entrambe le cose. Con l’andare del tempo questo brano venne acquisito della cultura americana in ogni sua esibizione, dal cinema (lo ricordiamo nella intro di Manhattan di Woody Allen e nel finale del film), all’arte, dalla tv alla letteratura, facendo di questo colosso musicale il caleidoscopio dell’umanità cresciuta a pomodori verdi fritti e libertà. 

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