1929. Non solo depressione. Non ancora recessione. Era quando il filosofo Hubert Dreyfus, insieme al conterraneo Charles Beaumont, riceveva i primi schiaffi dal mondo. E, irrimediabilmente, piangeva. Appena nati, i loro respiri si sarebbero presto tramutati in parole scritte e abbandonate ai posteri, parole da ricordare per sempre. In eterno. Hubert, dopo non troppo, superata l’età della incoscienza, dirà che i computer e l’intelligenza artificiale non diventeranno mai un emblema di quella umana; Charles, un po’ più avveduto e futurista, avrebbe detto il contrario, dimostrandolo con Ai confini della realtà | The Twilight Zone, e dando vita al re che donò alla Disney il suo attuale impero, un topo. Il Topolino.
Era lo stesso anno, il 1929, che diede l’ultimo respiro a Giuseppe Anselmi, il tenore italiano apprezzato nel mondo, mentre Thomas Mann riceveva il Nobel per la Letteratura. Mann, che prima di allora, aveva redatto il suo The Buddenbrooke che dopo, dopo solo qualche anno, concepì il suo capolavoro Doctor Faust. Era quando ci si faceva del male con intelligenza. Con saggezza.
Ai primi mesi di quell’anno si deve la Strage di San Valentino, il massacro con sede a Chicago che gli uomini di Al Capone idearono e misero in atto sterminando la banda rivale di Bugs Moran. Troppo americani quelli. Si doveva mantenere una coerenza logica con il sogno che gli Usa imponevano agli altri, con arricchimento facile e self made ability da immigrati europei. Fu da quella strage che si sancì il controllo della città e dello spaccio di alcolici. Quella strage che sarebbe servita a stabilire il potere era di fatto una consacrazione. E come fecero? Con un cavallo di Troia da far applaudire i troiani dal cielo. Mascherarsi da poliziotti e disarmare gli uomini di Bugs non poteva che giocare a favore di un naporicano trattenuto per ore in un interrogatorio con un giudice federale di Miami. Nessuna impresa fu così meticolosamente riuscita. Un’impresa che fece maturare introiti e potere in un sol colpo di genio e di armi. Un’impresa la cui firma era riportata in calce ad ogni bottiglia di alcolico che passava dalle mani insanguinate degli uomini di Al Capone alle mani tumefatte dell’ex pugile, campione di pesi massimi, Jack Johnson, proprietario, ancora per pochissimo, del Club Deluxe di New York, fino a quelle inguantate di Owney Madden, il futuro mecenate del Cotton Club.
Fu qui e a quei tempi che la musica nera di Edward Kennedy Duke Ellington suonava solo per i bianchi. Jungle music per gente che leggeva pamphlet razzisti, per gente che discriminava il passeggio lungo vie eterofile, che s’indignava (spesso con le mani) se un uomo di colore sorrideva a una donna pallida.
Era qui, nel 1929, quando la grande depressione deprimeva i grandi e meno coloro che già lo erano, depressi, quando era maturo contare il gap che divideva a forbice sempre più larga i buoni dai cattivi, quando però ci si nascondeva nelle apparenze del bene, pur facendo del male, quando il concettualismo capiva di dover lasciare il posto a nuovi orizzonti, a più importanti definizioni; sì, era qui, nella Grande Mela che Duke and his Orchestra, il big band leader di colore che azzittiva i bianchi col jazz, fece la sua prima comparsa al cinematografo con Black and Tan.
Erano anni di bronzo quelli prima e quelli dopo, ma il 1929 fu l’avvento. Il buon anno della musica. La musica che fino a poco tempo prima nasceva nelle piantagioni di cotone, vicino a un grande fiume, che nasceva dalla natura e dai suoni di dolori provocati dalla schiavitù.
C’era tutto in quella musica. I tanti dei, il politeismo, il contagio della fede vera, del gospel, del jazz, del blues, dei lamenti, delle stonature della vita, dei riscatti sulla potenza, una potenza innata, delle corde vocali, rosse, rosa, come per tutti, eppure lì, nel bel mezzo delle pozzanghere, sotto il sole cocente o con i venti più duri, si compiva un miracolo. E chi l’avrebbe mai detto che tutto questo si sarebbe ben presto vestito di tutto punto e che sarebbe salito sui palchi più popolari della musica colta, chi? Nessuno lo disse apertamente ma in tanti lo pensarono. Suonando, Duke Ellington fece la sua rivoluzione. Sputava in faccia la sua superiorità calpestando la coltre d’ignoranza, quella ancor più dura della prevaricazione cromatica, lo faceva guardando al cielo e suonando per loro. Per un’altra metà di umanità che conosceva bene. Conosceva a fondo. Di chi doveva stare prima e sopra rispetto a tutti gli altri.
Non se ne preoccupò. Ellington faceva la rivoluzione. Non solo per quelli come lui. La faceva per il mondo intero. E mentre lo faceva nel suo modo unico, su quel palco, le donne, a guardarlo, si crogiolavano: c’era chi piangeva, chi sorrideva con sforzo allo stupido amante dalla mano sempre morta che giocava ai pizzicotti sotto un tavolino da bar, mentre lei, la donna, s’innamorava dell’uomo sul palco. Così distante. Così politicamente lontano, così cromaticamente esotico. Così s’innamorava la donna dell’uomo che giocava ad ammaliare senza dire una parola. A toccare lo strumento, a dirigere un’orchestra intera, un pubblico stordito. Donna che guardava con disprezzo chi non comprendeva l’altezza di quelle note. Che ballava con le balze all’insù per il movimento senza freni alle noti stropicciate di un jazz notturno. La donna, come Bessie Smith, l’Imperatrice del Blues, l’artista maledetta che faceva del suo corpo un’altalena, della sua voce il nucleo della Terra.
Da Bessie partirono tutte. Fu Bessie a ispirare, nel 1929, le grandi dive del jazz. Fu sempre Bessie a dire che sì, anche a lei era concesso far del male. A salire ciucca sui palchi più applauditi, fregandosene di quanti si alzavano indignati, di quanti non capivano che dietro a tutto, dietro la vita vera, c’è sempre uno show. E una come lei, che di mimica e balletti fu nutrita, non poteva che fregarsene di tutti. Anche di chi estasiato godeva di lei. Della sua voce.
Nel 1929 aveva già venduto più di 780.000 copie di Down hearted Blues, e nello stesso anno partecipò alla cortometraggio St. Louis Blues della Warner Bross che la consacrò ad attrice drammatica. Non era difficile per lei. Non lo è mai stato per una come lei. Chi conosce il male sa farne arte, sa farne dramma o commedia in base al tempo che fuori fa, chi conosce il male subìto e il male eseguito sa che: «Su a Harlem ogni sabato quando gli snob si riuniscono l’ambiente è fantastico; tutti si riuniscono per un ballo che dura tutta la notte… e all’alba potete sentire la vecchia Hannah che dice: “dammi una zampa di maiale e una bottiglia di birre; mandami in estasi, amici, che non me ne importa niente; ho proprio voglia di fare la matta, dai da bere al pianista che mi sta deprimendo…“» (Gimme a Pigfoot and a bottle of beer, Bessie, 1929).
Bessie era matta, come la donna che applaudiva artisticamente Duke e, nel contempo, giudicava inferiore il suo aspetto. Il dentro e il fuori, come ogni moneta da due facce, non può essere considerato solo per metà. E il matto lo sa bene. Era Bessie la matta, e lo erano anche gli uomini che nel 1929 sentivano quella musica senza capirne nulla. Ché il jazz si sente, non si ascolta.
Per andarne fieri occorreva innanzitutto conoscere le modalità; per entrare a far parte di quei circoli che diffondevano le note convulse serviva di più, serviva conoscere il perché. I ritmi. Le urla di incitazione. Come in un circo, c’era chi eseguiva il numero, chi si divertiva, chi – i più impavidi – se ne appassionavano diventando mecenati, endorsement, diventando, allo stesso tempo, in sintonia con le incoerenze del 1929, aspettativa e rimprovero.
Era il 1929 quando il mondo riconobbe di dover cambiare. Le sue regole si dovevano capovolgere. I buoni non erano più così tanto buoni da potersene fidare ciecamente, così venne il momento di dar voce a tutti. Indistintamente. Dall’America, dalle proiezioni del suo sogno che da ogni parte si evocavano, dai palchi più picchiati, dagli uditori più avveduti, contrastati e impegnati, il mondo decise di cambiare. Senza fare rumore che non fosse il benamato jazz.
[di Elisa Mauro]