Il linguaggio che include, il linguaggio che cambia

di Elisa Mauro

Se sia giusto o meno, questo lo decideranno i posteri, qualora saremo ancora in grado di ascoltarli. Il linguaggio inclusivo oggi diventa una componente essenziale del nostro conoscerci, comunicarci, sapere di noi, soprattutto in contesti così diversificati come quelli che stiamo vivendo. 

Ma cosa significano realmente le due parole linguaggio e inclusivo

Linguaggio è lo strumento con il quale comunichiamo, la facoltà che l’uomo ha raggiunto con la sua evoluzione fisiologica e cerebrale di esprimersi per mezzo di suoni articolati come la parola. 

L’attributo aggiunto inclusivo sta ad indicare invece la rimozione da quella stessa parola degli ostacoli che limitano la piena espressione identitaria umana, in termini di genere o di altro, e promuove nello stesso tempo un agire di comunione e di rappresentanza totali. 

Un’idea che non solo piace e che seduce i nuovi circoli culturali e letterari, ma che contrasta con tutte quelle etichette realizzate da una società ancora indelebilmente discriminatoria, retrograda e scorretta. Propendente verso la solita simpatia nei confronti di un genere piuttosto che del suo avverso. 

Ogni parola che noi usiamo e che ci è stata data in dotazione da quando nasciamo con la lingua madre fa parte di un codice che permettere l’intesa ma anche la contesa tra gli uomini. Spesso la non-comprensione delle parole dette e del linguaggio utilizzato comportano gravi ripercussioni su diversi fronti di conflitto. 

Vera Gheno, la linguista e saggista che ha unito, prima di chiunque, le parole, anche nuove, ai generi, alle tribù e a tutte le identità da includere, ha sempre sostenuto come la lingua ci permetta di individuare gli altri e di riconoscerli. 

Vera Gheno – Fonte Web

«Ogni parola che usiamo è un atto di identità», afferma la linguista. 

Se ci raccontiamo, è importante soprattutto pesare le parole. Dare il giusto significato al significante, ossia alla forma di ciò che intendiamo dire. 

I social network, in barba al pensiero lineare, hanno sdoganato la possibilità di esprimerci senza filtri, di raccontare sezioni della nostra vita e di pubblicare in piazza emozioni e sentimenti anche e soprattutto intimi. 

Ma scrivere chiaramente per farsi comprendere presuppone un pensiero altrettanto chiaro. Se pensiamo in modo lineare, sicuramente sapremo esprimerci nello stesso modo. Altrimenti accadrà il contrario. E tutto sarà non solo incompreso, ma anche e soprattutto mal compreso scatenando giudizi, ire e molto altro.

Lo schwa (pron. scevà) si inserisce perfettamente in questo discorso. 

Ma di cosa si tratta? 

Lo schwa è una lettera che sta nel mezzo, derivante dall’alfabeto ebraico, ripreso poi dal tedesco. È una vocale centrale media che nell’alfabeto fonetico internazionale (AFI) è così simboleggiata /ə/.

La piccola “e” capovolta è di genere maschile e i linguisti utilizzano questo simbolo per riuscire a mettere per iscritto i suoni di tutte le lingue parlate al mondo. 

In ebraico vuol dire nulla, niente, zero, insignificante, perché si fa con la bocca in modalità riposo. È quel verso, quel suono che emettiamo quando, a una domanda posta, a un’interrogazione, prepariamo la risposta. 

Quel suono intermedio che esce dalla nostra bocca senza vocali è lo schwa che negli ultimi tempi è diventato, al pari di Covid 19, un terreno fertile di battaglia che vede schierarsi l’uno contro l’altro gli stessi eserciti di sempre: apocalittici da una parte e integrati dalla parte opposta. 

Ma questo suono non è nuovo per chi proviene dal Sud.

La parola mammətə, così pronunciata, nel barese, ad esempio, e che vuol dire tua madre, è forse la cosa più antica che si trasmette sin da piccoli da quelle parti. È un suono privato in gola delle sue vocali. Non è, infatti, mammata o mammeta, ma mam_t_, con una leggera sospensione tra consonanti. 

Per quanto si parli di novità ce n’è ben poca nello schwa, come potete notare.

Con lo schwa ci si rivolge, affermano i nuovi sostenitori, a una moltitudine mista e che comprende anche quell’un per cento di popolazione che non riesce a identificarsi in uno dei due generi così proposti, il maschio e la femmina. I non binari vedrebbero in questo modo sostenuti i propri diritti anche in un contesto linguistico accreditato dalle Accademie. 

Scopo è infatti quello di non rendere minore nessuno e di proclamare l’inno delle differenze. E perché tutte le differenze possano contare c’è bisogno di includere, ma per farlo è necessario sperimentare e cercare formule adeguate, pienamente condivise, che ci permettono di definirci al meglio, con equità ma anche abilitandoci il più possibile. 

Secondo Andrea De Benedetti, autore di Così non schwa, edito da Einaudi, «il cammino verso il linguaggio inclusivo è lastricato di buone intenzioni. Ma non di rado conduce anch’esso all’Inferno». 

Giornalista e linguista di origini torinesi, nel suo testo, si domanda come può affinarsi il concetto di linguaggio inclusivo, con quali strumenti, attraverso quale percorso e soprattutto a quale prezzo. Tutte domande lecite che però fanno poco sperare sulla riuscita di questa trasformazione linguistica. 

Perché come ogni cambiamento rivoluzionario che si rispetti la posta in gioco è alta, le vittime potenziali sono molte e gli strumenti oggi non sembrano ancora adeguati a questa prospettiva. 

Nel suo saggio De Benedetti afferma che «le lingue sono organismi vitali che rispondono a bisogni pratici più che etici. Devono garantire una comunicazione fluida ed efficace prima di farsi veicolo di istanze simboliche e identitarie».

In Italia infatti questione è diventata chiaramente politica, suggerisce l’autore. Dove fazioni di sinistra lottano per l’incisività dell’inclusione e quelli di destra stanno per lo più a guardare. 

Ma cambiare nome alle cose, ai significanti, alla forma non sempre corrisponde a cambiare la sostanza, il significato, la vera identità delle stesse cose a cui ci si riferisce. 

Fa notare De benedetti: il termine “medico” è ancora ampiamente usato per esprimere la professione generalizzata, sia in riferimento al femminile che al maschile. 

Tuttavia la superiorità numerica di donne medici (54%) sta a dimostrare come il senso ultimo di ciò che facciamo non è necessariamente collegato alla sua forma, che quasi con asfissiante forzatura abbiamo voluto relegare a un genere specifico. Medico – sostiene De Benedetti – appartiene a tutti, include tutti, a differenza della parola dottoressa

Ma nonostante la lotta fratricida che ne sta derivando sul linguaggio inclusivo, spesso e volentieri capita che donne laureate, professioniste, insegnati ancora si sentano chiamare “signora” o “signorina”, come chiaramente a sminuirne il ruolo. Ecco che forse bisognerebbe partire da lì, dal rispetto spicciolo, che sia inclusivo o esclusivo, di un ruolo o di una posizione sociale ottenuta con sacrificio. Di un’abilitazione corretta, di un’appartenenza reale a una categoria specifica.

Se è vero che il nostro linguaggio muta con i tempi, è pur vero che la lingua cambierà in modo naturale, fisiologico, senza forzature da parte di alcun genere, che sia maschile o femminile o non-binario. Soprattutto se quelle stesse forzature provengono dalle elité che sì, sanno parlare meglio di chiunque, tuttavia speriamo sempre che lo facciano anche nell’interesse di tutti gli altri. 

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