di Elisa Mauro
Quello che abbiamo visto scorrendo le immagini della giornalista sportiva, Greta Beccaglia, molestata in diretta sabato sera, durante il suo lavoro, da alcuni tifosi al termine della partita Empoli-Fiorentina, ha a che fare – per quanto nelle ultime ore si ostentino il solito perbenismo e il finto disdegno – con una cultura che è difficile da sradicare e che appartiene a molti più uomini e donne di quanto si pensi. Come è difficile, allo stesso modo, parlare di argomenti e di fatti così cruenti, così riprovevoli, senza cadere nell’ovvio, nel retorico aggiungendoci un «non facciamola tanto lunga» o «era solo una bravata».
Eppure risuona ancora, per chi ha saputo sentirla, quella risata stridula, imbarazzata, eppur composta, che chissà cosa diamine nascondeva, chissà quanto forte era il pianto che stava trattenendo.
La giornalista, subito dopo la violenta pacca ricevuta, concede al suo molestatore anche un minimo approccio umano: «Scusami, non puoi fare questo, mi dispiace». Scusami e mi dispiace, due costrutti linguistici abbastanza semplici che si insegnano ai bambini per affidargli la minima responsabilità dei loro sbagli e, dopo averla compresa, condividerla con chi è stato umiliato, offeso.
Invece, quell’errore lo sente solo suo, la colpa in fondo è quella che percepisce lei, non lui. E sarà sempre così. Dimostrazione semplice ed efficace è che riceve, dall’altra parte dello studio, dal suo collega, non disdegno per l’atto compiuto e successiva comprensione umana, no, riceve: “Non te la prendere“, abbi coraggio, figliola, resta impassibile, una statua, una bambola gonfiabile, qualsiasi cosa tu voglia essere, ma vai avanti. E non per paura che qualcuno si rivolti contro di te, e ti faccia male, ma per paura che possa rimetterci un cameraman, un servizio o il mio protagonismo.
È sempre più vero che le donne appartengono a una categoria a parte. Le vediamo ormai ovunque, sono presenti addirittura sulle lunghe e impervie scalinate dell’ascesa politica, economica, finanziaria, culturale e artistica. Ma sono sole. In molti casi criticate, offese e comunque pur sempre lodate fino a un certo punto e non oltre una determinata soglia. Fintamente le vediamo primeggiare in qualcosa, reggere un moccolo che durerà quanto la vita di una farfalla. Ma non ci lamentiamo, anzi, è tutto grasso che cola.
È straziante, però, vederle aggrapparsi con le unghie alla propria autonomia e al riconoscimento professionale, familiare, sociale, per non essere buttate giù nel solito dimenticatoio, quel pozzo buio in cui si mettono i cadaveri degli assassini. Che ci spetta, almeno quello, di diritto, quando saremo stanche di dimostrare che sappiamo anche farcela, che possiamo nascere con una luce particolare, come chiunque altro, oppure che possiamo maturarla con lo studio, oppure che possiamo riprodurla, quella luce, addirittura con l’esperienza, con il vivere, se è concesso.
Quando ho deciso di fondare L’auditoriu, la preoccupazione più grande era chi mettere sopra di me, abituata a non essere a capo di nulla; ho pensato da quasi subito che un uomo sarebbe stato più credibile, avrebbe operato con sfrontatezza, con maggiore disinvoltura, avrebbe avuto più seguito, maggiori autorevolezza e credibilità. Ho pensato, Tu hai figli piccoli, sei una madre, non togliere loro del tempo prezioso. E poi, Sei anche moglie, penserà che stai giocando, che vuoi solo divertirti, non renderti ridicola. In quel momento, per un solo breve momento, ho ritenuto di non essere all’altezza del ruolo che nessuno mi aveva affidato perché era già mio. O di ritenerlo, peggio, non al cospetto di omologhi al maschile.
Se ancora oggi leggiamo libri scritti da autori, piuttosto che da autrici, c’è un motivo: li reputiamo più bravi. Se adoriamo gli chef, e meno le cuoche, è perché devono essere più creativi, più abili, più puliti. E se ci chiedono di pensare al docente più in gamba e comprensivo della nostra esperienza formativa, molto probabilmente sarà un uomo. E questo non per colpa nostra, ma per colpa di tutti. Della cultura che ha reso le donne in una condizione di lotta continua, ormai avare nel cedere gli insegnamenti, alle volte, pochissimi e schivi, e mai più del dovuto, nel cedere amore, che non sia quello condizionato dal contesto progenie e familiare, nel cedere se stesse per paura di rendersi ridicole.
Ci hanno detto che dovevamo studiare, e grazie, lo abbiamo fatto. Alcune di noi sono diventate anche molto abili, ma molte altre avevano già qualcosa dentro che se non fosse stato per questa cultura dominante sarebbe già esplosa come i fuochi d’artificio a ferragosto.
A sette anni (sette, non trentotto) ho diretto la mia prima rivista culturale. Era un periodico settimanale e insieme alla mia amica Laura decidemmo di donare ai nostri compagni di scuola questo piccolo quaderno scritto a mano e fatto di recensioni musicali, di libri, illustrazioni, vignette umoristiche e con argomenti di attualità e chiacchiere su piccoli disagi infantili. Non ebbe molto successo. Notammo che alcuni compagni, dopo averlo ricevuto, lo gettavano per terra o lo strappavano. Mi fece specie quel compagno che lo guardò e, senza neppure leggere una parola, lo scaraventò contro l’armadietto.
Così, dopo un breve brief, decidemmo di applicarci un costo, un valore su quel giornale, cosa che non avevamo pensato di fare prima. Mille lire a copia. Il mercoledì successivo riuscimmo a vendere quasi venti copie. Con quelle 20mila lire ci andammo a comprare subito due gelati, anche se cominciava a far freddo, un quotidiano, una rivista musicale, il cd del singolo del nostro idolo e chiedemmo ai genitori di accompagnarci al cinema per vedere un film che volevamo a tutti i costi recensire sul nostro giornalino. Ci fu negato, ma quei soldi li abbiamo impiegati comunque in nuove risorse per il magazine: libri, penne e matite colorate.
La mia prima esperienza professionale finì nel giro di un anno, ma fu comunque bellissima e intensa. Capimmo la lezione più importante, a otto anni, non quaranta, di questo vivere in società, ovvero che il valore da applicare sulle cose – e sulle persone – è fondamentale perché possano comprenderlo gli altri e darlo a loro volta. E quando questo valore viene a mancare, perché non se ne vuole dare il giusto compenso, come nel caso di noi donne, di Greta, o per generosità, restiamo a guardare, restiamo a farci convincere che qualcuno meglio di noi può garantirci ciò che ci manca, che sia autorevolezza che sia compiutezza che sia pragmatismo. O qualsiasi altra stupida dote che si compra con brevi sedute di analisi e pillole di coaching seriale made in Milàn.
Da allora ho lavorato per diverse redazioni. A diciannove anni, appena iscritta all’Università e dopo un trenta e lode in Musicologia e Storia della musica, lavoravo per una rivista di critica musicale, molto conosciuta. Fu un’esperienza indelebile che mi ha lasciato tutto ciò che so della musica e che amo di lei: scriverci, narrarci storie, trasformare le note in parole per chi non sa leggerle, per chi non ha strumenti né saprebbe cosa farne. In questa redazione, come in tutte quelle che ho frequentato, dalla giovanissima età fino a questa, dominavano visioni prettamente maschili. I maestri erano loro, d’altronde, e tu non potevi fare altro che imparare. Così – e grazie – ho fatto.
Tra gli episodi della mia vita non ricordo di aver avuto altre madri, a parte quella assegnata d’ufficio, ma ricordo di aver avuto diversi padri, molti più padri di quell’unico che mi era stato affidato. E questo per una ragione precisa, che ho compreso anche io da grande. Le donne sono gelose delle proprietà che possiedono, e solo a loro sanno donare, difficilmente condividono l’amore e lo moltiplicano, avendo da accudire già i propri figli o i propri gatti. I padri sanno essere più generosi, hanno meno da perdere, ti includono volentieri, anche se sei figlio o figlia di altri, perché forse la maggior parte degli sforzi non li fanno neppure loro, ma sanno delegarli. Come ho sempre sostenuto, il difficile non è essere genitori dei propri figli, ma di quelli altrui. Per poterli guidare e insegnare loro ciò che sappiamo.
I padri che ho avuto sono tutti i miei maestri di vita, gli esempi: insegnanti, professori universitari, giornalisti, filosofi e persino un rigattiere. Non ho avuto, invece, altre madri, qualcuno che potesse insegnarmi a vivere come una donna, come una madre, come una figlia; solo padri, tuttavia, che mi hanno insegnato a vivere come un uomo, a ragionare in modo pratico e veloce, a non fermarmi alle giravolte ormonali, a non sensibilizzarmi in “quei giorni lì”, a vedere come un bit epicureo la mia stessa esistenza, a non scoraggiarmi di fronte alla bellezza e alla bravura altrui, ma a farmele amiche, piuttosto, seguirle, apprezzarle. A sostenere la tesi per cui il tuo valore, se non lo esprimi, non lo hai. Se lavori gratis, non lavori. Se scrivi, e non sei un’autrice di successo, ben pagata, non sei una scrittrice. Se elabori strategie di comunicazione aziendale e campagne pubblicitarie più riuscite, ma non ti attieni alla mentalità di provincia familiare, allora non sei una brava manager. Se fondi una rivista culturale, e non chiedi niente in cambio, nessuno la leggerà.
Le lotte delle donne di questi ultimi anni si concentrano e si fermano tutte a una “a” sulla fine della parola sindac(?). Non c’è molestia peggiore di una pacca sul culo (ho letto su un articolo “non voluta”, quando mai lo sarebbe una pacca sul culo?), ricevuta in pubblica visione o riservatamente tra le quattro mura di un ufficio, ma noi lottiamo per una “a” sulle parole. Non c’è visione peggiore di quella che ci vede zitte a contemplare le decisioni di genere, ma noi siamo ferme a una “a” da aggiungere alle parole. Non c’è un mondo più vigliacco di quello che ci chiama puttana ai semafori, che fischia a una donna che cammina per la strada, ma noi siamo lì a chiederci quante altre “a” dobbiamo aggiungere alle parole? Non c’è un’esistenza peggiore di quella che vive a un gradino sotto, a un passo indietro, eppure noi ci ostiniamo a valere per una stupida “a” sulle benedette parole.
Quanto sarebbe stato bello se Greta, dopo la molestia subita, avesse sbattuto il suo microfono contro la testa di quel mascalzone. Come sarebbe stato bello se il cameraman si fosse girato a riprendere l’uomo, anziché la giornalista, a riprenderlo fino alla fine del suo tragitto, a seguirlo, e incalzandolo a chiedergli perché, anziché far finta di nulla; come sarebbe stato bello se qualche altro compagno lo avesse preso e condotto a chiedere scusa alla giornalista. Come sarebbe bello se sua figlia non vedesse mai il gesto di suo padre alla tv. E come sarebbe stato ancora più bello se la sua campagna avesse deciso di mollarlo per un uomo migliore, o semplicemente per sé stessa. Come sarebbe stato poi ancora più bello non vedere, o non aver visto, gli occhi sudici di quegli uomini addosso a un culo, a un seno, a un pube che nel complesso sono una donna che lavora, che ha studiato, che ha fatto sacrifici. Come sarebbe stato bello se il mondo mi avesse dato più madri di quella che ho avuto. Forse avrei capito che l’amore per moltiplicarsi ha bisogno di più semi e nutrimento e questa nostra aridità proviene da tutti i libri che non abbiamo letto, da un insegnamento trattenuto e non donato, da uno studio che non abbiamo colto, da un’informazione che non abbiamo dato.
Difendersi è possibile solo accrescendo il nostro bagaglio culturale, senza dover chiedere scusami, mi dispiace per ciò che subiamo. Senza sentirci meno di ciò che siamo. Solo così noi donne impareremo un giorno a insegnare, e a cedere molto di più di ciò che sappiamo, senza pensare di dover togliere qualcosa a qualcuno, senza far finta che questo sapere – escluso quello sul fuori gioco e sulle moviole, evidentemente – appartenga solo a un genere e non a entrambi.