Quando ho ascoltato per la prima volta la storia di Lilianys, ho avuto l’acuta sensazione di trovarmi nella Menneskebiblioteket, il concept di biblioteca vivente creata da Ronni Abergel, in cui alcuni sconosciuti si incontrano e fanno la narrazione delle loro storie di vita, in una sequenza che li trova narratori e attori, o attori e narratori, di se stessi.
La sua storia, ascoltata con attenzione durante un percorso di formazione svolto assieme, è tornata alla mia mente qualche giorno fa, apprendendo del suicidio di Adelina113, al secolo Adelina Sejdini, la donna albanese giunta in Italia come schiava del sesso, rapita a soli 15 anni, venduta, stuprata, picchiata, seviziata, resa prostituta, condotta in Italia a “fare la vita”, morta suicida a Roma, una volta appurato che nel suo permesso di soggiorno era stato tolto lo status di apolide e indicata la cittadinanza albanese, che lei aveva rifiutato.

Non si tratta certo della storia di Lilianys Gonzales, ma un particolare le lega in una sorta di gioco di rifrazione, in cui alcune scelte prese, contribuiscono a determinare il futuro dei protagonisti più di altre. I destini di Lilianys e Adelina si incrociano entrambi sul terreno viscoso dell’apolidia.
Di apolidia si parla poco. Gli apolidi rappresentano una minoranza nella minoranza, sono le persone che nessuno Stato considera come propri cittadini e a cui non viene riconosciuto il diritto fondamentale alla nazionalità e che quindi non possono godere dei diritti ad essa legati. Secondo le proprie rilevazioni, l’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ndr) stima che gli apolidi nel mondo siano 4.2 milioni, di cui un terzo minori. Si tratta di cifre al ribasso: la maggior parte degli Stati infatti non raccoglie alcun dato in merito.
Secondo gli ultimi dati disponibili le persone apolidi o a rischio apolidia potrebbero essere in Italia circa 3.000. La maggior parte di esse appartiene a comunità Rom originarie della ex-Jugoslavia che vivono in Italia da molti anni, mentre i restanti provengono dall’ex URSS, Cuba, Cina (Tibet) e i Territori Palestinesi Occupati.
Lilianys è cubana, arriva in Italia per amore: nel 2000, dopo aver conosciuto a Cuba quello che diventerà suo marito, compie una prima vacanza con visto turistico a casa dell’ancora fidanzato italiano e si trasferisce definitivamente in Italia nel 2005, anno in cui la coppia si sposa. Il matrimonio va avanti per cinque anni, prima che la relazione sentimentale si sfilacci. Se non che, i due, di comune accordo, avviano le pratiche per il divorzio. Nel 2007 comincia quella che sarebbe diventata la sua odissea: il rinnovo del suo permesso di soggiorno che sfocerà in un incubo.
In attesa del visto, la donna si trova costretta a non rientrare a Cuba per il tempo necessario al rilascio del permesso di soggiorno. Un tempo superiore a quella soglia di 11 mesi superata la quale una vecchia legge cubana dei tempi della guerra fredda – oggi modificata (il limite è stato innalzato a 24 mesi) – faceva decadere il diritto di residenza nel Paese.
All’oscuro di tutto Lilianys continua a condurre la propria vita in attesa dei documenti, fin quando un giorno viene fermata dalle forze dell’ordine per un controllo di routine ed emerge che la domanda di rinnovo del suo permesso di soggiorno è stata rifiutata. Trasportata in questura ed effettuate le relative pratiche, Lilianys viene spedita al Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria, periferia di Roma, dove resta per tre giorni.
Il tempo necessario ad essere ascoltata dal magistrato e a diventare testimone del degrado e della disperazione di quel luogo. Scorrono immagini prostranti: si sta accampati in camerate sovraffollate dove capita di vedere i detenuti armeggiare con delle lenzuola per ricavarne corde.

Le nigeriane invece sono un mondo a parte.
Vengono tenute a sé, come gruppo ben identificato. Hanno storie terribili. Sono vittime di tratta e del terrore indotto dalla cieca credenza nei malefici del Juju. Ricevono inquietanti chiamate notturne di minaccia.
Il magistrato dispone l’espulsione entro sette giorni con foglio di via, furioso, a detta sua, del pessimo modo di lavorare di una certa Questura italiana. E qui arriva il primo inghippo: Lilianys lascerebbe anche il Paese, ma come potrebbe senza documenti? Si affida allora a Radio CIE e riceve dalle altre detenute il nominativo di un avvocato che, sotto pagamento, è in grado di farla uscire: l’azzeccagarbugli si inventa di sana pianta una storia di violenza e maltrattamenti da parte dell’ex marito, pur senza il consenso della sua assistita, e la fa liberare.
Rientrata nella sua città di residenza, Lilianys individua un nuovo avvocato per sbrogliare questa matassa: tentato un fallimentare accordo con la Questura a tutela della sua cliente, il legale rinuncia al caso, avendo capito di trovarsi in un meandro di burocrazia che proietta lui e Lilianys in uno scenario distopico degno del Castello di kafkiana memoria.
La ragazza cade in uno stato di prostrazione e gioca, senza esito, la carta della denuncia della stessa Questura per istigazione a delinquere: sarebbe stata la Questura, con i suoi ritardi, a creare questo corto circuito e a renderla clandestina di fatto, relegandola tra gli invisibili.
In un incredibile ritorno dell’uguale riaccade poi l’impensabile: Lilianys viene fermata per un controllo una seconda volta dagli stessi agenti che avevano effettuato il primo e la procedura si ripete come e più di prima all’urlo di «Stavolta farò in modo che tu trascorra una vacanza più lunga», con un evidente riferimento alla villeggiatura nel CIE. In effetti questo è quello che succede e Lilianys viene riportata a Ponte Galeria. Questa volta per ventisette giorni. A seguito della prima udienza, il giudice di turno convalida l’arresto e dispone un periodo di detenzione di venti giorni, entro il quale le autorità avrebbero contattato Cuba per avviare la procedura d’espatrio.
L’Italia però non ha accordi bilaterali con Cuba in tema di rimpatri.
Trascorso il periodo di fermo, Lilianys viene riconvocata da un nuovo magistrato che depreca ancora la qualità del lavoro della Questura in questione, e che la rilascia con un foglio di via. Il copione si ripete, ma questa volta la donna è determinata a prendere il toro per le corna e trovare una via di uscita.
Comincia a studiare e si imbatte in un caso di apolidia.
Lilianys non sa cosa sia l’apolidia, ma intravede una via percorribile. Scopre che nella sua città esiste uno studio legale specializzato che se ne occupa e vi si rivolge. I legali inquadrano subito la situazione e capiscano che l’ottenimento dello stato di apolidia può essere l’unica soluzione per risolvere i problemi dell’assistita. Aprono un procedimento e citano in giudizio il Ministero dell’Interno, sulla base di quanto stabilito dalla Convenzione di New York del 1954 sullo statuto degli apolidi: il Tribunale competente accoglie la richiesta, concedendo a Lilianys lo status di apolide e chiede alle autorità di rilasciarle il permesso di soggiorno e l’iscrizione alle liste anagrafiche.

Adelina e Lilianys sono le protagoniste di due storie tragiche che vedono, la prima nel ritiro dello status di apolide, la seconda nella sua concessione, il punto di non ritorno o di svolta delle vite di ciascuna. Ma quelle loro vite sono state o sono segnate dalla lentezza, dalle goffaggini, dalla binarietà della burocrazia italiana: l’una, Adelina, invalida al 100%, già vittima di tratta, paladina delle ragazze di strada che con le sue denunce conduce lo Stato Italiano ad arrestare 40 trafficanti di donne appartenenti alla mafia albanese, che lo Stato avrebbe dovuto proteggere e tutelare, deprivata del suo status di apolide, rischiava il permesso di soggiorno e il rimpatrio in quell’Albania pervasa dalla stessa mafia che lei aveva fatto condannare; l’altra, Lilianys, si è trovata a ricorrere all’istituto dell’apolidia a seguito un clamoroso ritardo burocratico nel rinnovo del permesso di soggiorno che le è costato il diritto di residenza a Cuba, l’ingresso nella condizione di clandestinità in Italia e l’impossibilità di rientrare nel proprio Paese. Per l’una l’apolidia è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso della resistenza conducendola ad annientare la propria vita, per l’altra unico modo per riappropriarsi dei suoi diritti.
Dopo l’approvazione della legge 162/2015 sulla ratifica della Convenzione per la riduzione dell’apolidia di New York del 1961, vi è stato in Italia un tentativo di istituire una normativa organica per il miglioramento delle condizioni delle persone apolidi e delle relative procedure di richiesta: è il DDL 2148 fermo al Senato dalla XVII Legislatura, che recepisce tutti i suggerimenti e le raccomandazioni proposte dall’UNHCR in merito. Si tratta di un disegno di legge che metterebbe un po’ di ordine, fissando alcuni importanti paletti, modificando alcuni criteri e snellendo una serie di procedure per semplificare l’iter di richiesta dello status di apolide.
Faccio un esempio.
Se il disegno di legge fosse stato in vigore, Adelina sarebbe potuta essere ancora viva: l’articolo 2 di quel testo stabilisce infatti che l’accesso alla procedura per il riconoscimento dello status di apolide possa avvenire in qualsiasi momento e per chiunque sia già presente sul territorio nazionale indipendentemente dalla sua condizione giuridica relativa al soggiorno, come richiesta di status garantita da una Convenzione internazionale. Allo stesso modo Lilianys non sarebbe dovuta ricorrere alla via giudiziale per l’accertamento del proprio status di apolidia, come previsto dagli articoli 3 e 4 della stesso testo.
Capita a volte che vite come quelle descritte si tramutino nel feroce campo tra ciò che è percepito come giusto e ciò che viene vissuto come ingiusto e finiscano per assurgere a casi esemplari che mostrano verso quale direzione andare per ampliare le tutele dei cittadini di un mondo sempre più globale, globalizzato e bisognoso di strumenti adeguati a questi nuovi tempi. L’unico modo di onorare queste storie non è solo promuovere il cambiamento che meritano, ma la giustizia e la dignità che reclamano.
Per maggiori approfondimenti: Convenzione sullo Statuto degli apolidi