Burn out: cadere e poi rialzarsi

È autolesionismo quello che ci porta a vivere, e lavorare, in contesti ostili? No, spesso è solo necessità. Una necessità ovvia che ci porta a preferire il male minore per poter sopravvivere e accudire la nostra famiglia. Fu nel lontano 1996 che l’AD della Coca Cola Company, Bryan Dyson, dal palco dell’Università Tech della Georgia, parlava delle cinque sfere della vita: lavoro, famiglia, salute, amici e anima.

Dyson spiegava che nella vita, di queste cinque sfere, solo una è infrangibile perché è una pallina di gomma e rimbalza, ed è il lavoro. Tutte le altre, se lasciate cadere per incuria, per distrazione o semplicemente per mancanza di equilibrio, si distruggeranno e niente le farà tornare come prima. Ecco perché il lavoro può cambiare, può modificarsi, nulla ci obbliga a stare in una condizione deleteria per il nostro fisico, per la nostra mente.

E quando accade di percepire l’ostilità nell’ambiente di lavoro e di somatizzarla, allora è il caso di ragionare bene e di analizzare i fattori che ci legano ancora a quella realtà, e se sono più forti rispetto a tutto il resto.

Il burnout (letteralmente, bruciato) vuol dire proprio questo: arrivare a un punto di non ritorno, a un esaurimento vero e proprio a causa del lavoro. Per l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), con burnout s’intende un fenomeno occupazionale dell’affaticamento derivante da stress cronico associato al contesto lavorativo. Un momento difficile da vivere che il lavoratore non è in grado più di gestire.

Dolore psicofisico, delusione, frustrazione, improduttività portano inevitabilmente a disamare il proprio lavoro, l’attività che si è scelto di svolgere nella vita e che fa della propria vita la realizzazione umana. Finalmente riconosciuta come sindrome nel 2019, il burnout è altro ed è ben distinto dalla depressione o dallo stress derivanti da traumi riferiti ad altri settori della vita.

Burnout è quando non si riesce a scomporre la propria vita in sezioni e tutto diventa appannaggio delle proprie competenze professionali, della dimostrazione e della capacità lavorativa da cui subentrano demotivazione e profonda delusione. I ritmi intensi a cui si è obbligati, la responsabilità lavorativa e le richieste pressanti da parte di colleghi e datori possono generare in alcuni casi un esaurimento cronico dettato dal notevole investimento in termini di energie e di risorse. Spesso è richiesto più tempo del dovuto e il lavoratore in molti casi non può rifiutare. La competizione con i colleghi, il raggiungimento costante degli obiettivi, la gara innescata per ottenere il migliore e il più alto rendimento concorrono notevolmente a questo carico.

Ma esistono anche fattori psicosociali che giocano un ruolo determinante nell’evoluzione possibile del burnout. L’età, ad esempio, è uno di quelli che possono più facilmente indurre a stress da lavoro, più si è in competizione con colleghi giovani appena introdotti nel mondo del lavoro, maggiore è il rischio di delusioni, confronti e paragoni ingiustificati e inevitabile frustrazione; le donne sarebbero inoltre più condizionate dal burnout rispetto agli uomini, questo dipenderebbe anche dai carichi emotivi che nelle quotidianità le donne ricevono, in famiglia, nella società, nella propria individualità.

Quando poi le aspettative lavorative hanno un peso reale nella vita degli individui, questo aumenta enormemente la possibilità di incorrere in uno stress da lavoro.

Ma la sindrome da burnout, come tale, può essere diagnosticata esclusivamente da un medico o da uno psicologo. E l’automedicazione, come l’autodiagnosi, sono fortemente sconsigliate, trattandosi di una patologia vera e propria. Per comprenderne l’entità o la gravità è necessario ricorrere a un adeguato piano di intervento, attraverso colloqui periodici per analizzare al meglio i fattori scatenanti e definire il rimedio e la cura da apportare.

Il burnout non solo si può curare, si può (e si dovrebbe) anche prevenire. E in che modo? Rispettando prima di tutto le proprie esigenze, che siano fisiche, morali o semplicemente inerenti al proprio individuale sistema valoriale; poi: fissando traguardi che siano facilmente raggiungibili, come piccoli passi quotidiani da svolgere senza troppe aspettative; e delegando ad altri le mansioni in eccesso, senza accettare ogni cosa incondizionatamente; creare un ambiente di interazione produttivo al netto di conflitti e competizioni e condurre uno stile di vita sano per incoraggiare il proprio organismo alla difesa dallo stress.

Tutto questo può facilitare un percorso sano di lavoro. Qualora non dovesse bastare e, prima di avvertire un senso di reale disagio nell’ambiente di lavoro, seguendo le parole del saggio Bryan Dyson si potrebbe pensare di cambiarlo, di modificare quella sfera che, anche se destinata a cadere più volte in una vita sola, rimbalzerà permettendoci di reinventare noi stessi. Non sempre è così facile avere quel coraggio. Spesso è solo la paura a bloccarci, a ritenere di non potercela fare ancora, e invece non c’è niente al mondo di più sbagliato.

[Redazione]

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